Il 23 febbraio del 2010 il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, spedì un enorme contingente di forze dell’ordine a invadere il quartiere dell’Idroscalo di Ostia, l’ultima frangia di litorale romano prima della foce del Tevere. Inizialmente l’intenzione era demolire tutte le case e obbligare gli abitanti a trasferirsi, ma grazie alla mobilitazione organizzata di molti abitanti, soprattutto donne, si riuscì a contenere la distruzione a solo trentacinque case (su circa cinquecento). Si trattò di un’operazione anti-abusivismo mascherata da intervento di protezione civile. Da allora, le famiglie sfollate hanno vissuto in un residence molto lontano da Ostia e la maggior parte dei loro membri oggi sono molto più precari.
A dieci anni di distanza, la sindaca Raggi annuncia ora di nuovo – con un post su Facebook – la volontà di “riqualificare” l’Idroscalo e di trasferire gli abitanti altrove, nonostante si sappia che la grande maggioranza di essi desiderano rimanere nel quartiere e che il Comune non ha abbastanza risorse per trasferirli. Ma sul litorale ci sono interessi importanti: mentre il costruttore Caltagirone punta sul porto di Ostia, la compagnia Royal Caribbean ha ottenuto la concessione per riattivare il porto di Fiumicino. Pur di dare segnali positivi ai grandi investitori, le istituzioni non si preoccupano di mantenere migliaia di cittadini nell’incertezza e nella precarietà.
«Allora su tutti i mijardi che loro se so’ mangiati fino a oggi, noi, oggi o domani, faremo un museo. Di tutto quello che è successo, a livello storico, mafioso, sul territorio. Faremo un museo; noi lo proponiamo, l’abbiamo già detto. Noi metteremo tutto: intercettazioni, nomi, cognomi, tutti li mettiamo». (F.L., attivista di Ostia, 2015)
Il 23 febbraio 2010, quando si aprì la cancellata posteriore del Porto Turistico, una marea blu invase l’Idroscalo di Ostia. Oltre mille agenti – tra Protezione civile, polizia, carabinieri, vigili urbani, vigili del fuoco, finanzieri, Digos, unità speciali cinofile – si riversarono sulla piazza, dove molti abitanti, allertati da una fuga di notizie, aspettavano svegli, all’addiaccio o nelle macchine parcheggiate davanti alle case. Protette a mare dalle motovedette della polizia e in aria dagli elicotteri, nel quartiere entrarono le ruspe, i camion per la rimozione delle macerie, le ambulanze. Gli abitanti, che dalla notte precedente facevano le ronde per Ostia in cerca di avvisaglie di uno sgombero, non avevano pensato che il contingente si stesse preparando all’interno del porto.
Come negli sgomberi delle case occupate degli anni Settanta, furono le donne ad andare avanti con le mani alzate, alcune con i bambini in braccio, come a dire: siamo famiglie, siamo gente pacifica, non ci buttate giù le case. Ma i nuclei antisommossa avanzavano compatti, sbattendo i manganelli sugli scudi. A differenza degli anni Settanta, però, molti agenti erano donne, grandi, aggressive, e si rivolgevano direttamente alle donne dell’Idroscalo, per intimare loro di arretrare. I vertici della polizia con il megafono chiedevano di lasciar svolgere le operazioni di sgombero; c’erano reparti da fuori Roma che sembravano pronti per l’assalto a una roccaforte mafiosa. Sarebbe bastato veder volare una pietra, anche tirata da un bambino, per far degenerare la situazione. Nel corso della giornata, trentacinque case della punta dell’Idroscalo furono sgomberate. Alle circa centocinquanta persone sfrattate, tra cui diciassette bambini (più trentasei cani, nove gatti e un cavallo, come scrisse Enzo Scandurra) furono assegnati appartamenti nei Centri di Assistenza Abitativa Temporanea (CAAT), strutture residenziali affittate dal Comune per supplire alla cronica carenza di alloggi, e soprattutto alla mancanza di case popolari.
Molti abitanti si chiusero nelle case per impedirne la demolizione, ma senza successo. Una donna mi ha raccontato che, mentre il quartiere era invaso dalla polizia, il marito spostò la macchina per bloccare l’entrata della casa agli agenti e rinchiuse lei e i bambini dentro casa, facendo da scudo con il suo corpo per proteggere la casa e la famiglia. La casa fu demolita lo stesso. Una signora di settant’anni si rinchiuse in una stanza minacciando di farsi seppellire dalle macerie se avessero demolito la casa. Ma i poliziotti non si fecero scrupolo a sfondare le porte e a trascinarla via, aiutati da una serie di emissari comunali che tranquillizzavano i cittadini promettendo loro che avrebbero avuto case popolari. Nel frattempo, le imprese di trasporti imballavano mobili e suppellettili di ogni casa per caricarle sui camion. I servizi sociali erano impegnati, più che ad accompagnare le persone nel trasferimento, a redigere le liste degli abitanti di ogni casa, che in realtà erano già state rilevate molto approssimativamente tre mesi prima.
Racconta una delle abitanti della zona: «Sbattevano il manganello sullo scudo. E quella a casa mia si chiama carica. Due secondi prima il questore venne da me, dicendomi: “Signora, lo vede quel tizio con quel bambino?”. Quel bambino era mi fijo. Loro, Stefano, avevano la lista. Che se anche fosse successa una minima cosa, loro andavano nelle case che avevano segnato. Loro erano già tutti organizzati, già sapevano quanti eravamo, quanti non eravamo, chi abitava dentro quelle case, chi non c’abitava». La donna ricorda un celerino che le si è avvicinato durante la carica e le ha detto, indicando un uomo: «Lo vedi quello? È ‘r questore. Lèvete, perché c’ha detto d’ammazzavve». Poi ricorda una donna poliziotto, con «la bava alla bocca, t’o giuro! M’è venuta dietro, me voleva ammazza’». I vigili a volte riuscivano a mediare tra la polizia e gli abitanti, evitando che si arrivasse allo scontro, ma in generale le forze dell’ordine hanno agito con violenza verso alcuni e con l’inganno verso altri. Per gli abitanti questi comportamenti condensavano vite intere di disprezzo istituzionale. Spiega una donna: «Gli hanno detto che qua c’era gentaccia, che c’aveva i fucili, c’aveva pistole, c’aveva… tutto e de più! Te rendi conto?».
Una delle donne trasferite con la forza in un residence viveva in una delle case più a rischio di tutto il quartiere: il mare batteva contro la sua parete e spesso doveva salire al piano di sopra perché quello di sotto si inondava. Ma la casa era stata un rifugio sicuro per molti anni. Nata a via dei Balestrari, subito dietro Campo de’ Fiori, in pieno centro di Roma, da padre romano di dieci generazioni, nel 1971 aveva subìto lo sfratto dalla sua casa di famiglia e aveva occupato un appartamento in una casa popolare, sempre in centro, di cui era riuscita a ottenere l’assegnazione. Nell’80 iniziò a frequentare l’Idroscalo durante l’estate e dal 1991 vi si trasferì, per lasciare la casa di Roma al figlio con la sua famiglia. Ma quando il figlio si separò dalla nuora, quest’ultima prese prima la residenza e poi ottenne l’assegnazione della casa. A lei rimase solo l’Idroscalo.
L’operazione era motivata, come molte altre prima, da un’ordinanza della Protezione civile, con l’obiettivo di “mettere in sicurezza” l’abitato da un’eventuale esondazione del Tevere. Si prevedeva quindi prima lo sgombero, poi la realizzazione di un sistema di protezione sulla riva del fiume, che naturalmente non venne realizzato. I precedenti interventi della Protezione civile all’Idroscalo, anche quando avevano richiesto l’evacuazione di qualche area, si concludevano sempre con il ritorno degli abitanti nelle loro case, una volta cessata l’emergenza. In altre occasioni invece il Comune aveva demolito delle case, per esempio tra il 2003 e il 2004 ne erano state abbattute sei, ma mai adducendo la ragione dell’esondazione del fiume e sempre offrendo case popolari agli sfrattati, anche se lontane (in particolare, ad Anzio). Il 23 febbraio 2010 invece ci fu una vera e propria truffa: le case furono abbattute con il pretesto dell’emergenza e gli abitanti sfrattati a forza, senza preavviso. L’ordinanza adduceva un rischio di esondazione del fiume, tutti gli sgomberi invece furono fatti a mare: gli agenti procedettero all’abbattimento delle case sul litorale, tutte quelle comprese tra il mare e una linea tracciata a mano dal sindaco Gianni Alemanno sulla mappa del quartiere.
«Alemanno voleva buttare giù una cosa che neanche conosceva. Non la conosceva la nostra situazione! Aveva solo una piantina: tutto ciò che stava al di là di sta penna doveva esse buttato giù», dice uno degli abitanti rimasti lì. Tutta l’operazione è stata permeata dall’arbitrio, a partire dalla scelta della zona e delle case da abbattere. Alcune delle case comprese tra la linea e il mare furono risparmiate: su molte ci furono negoziazioni, spesso violente, e alcuni abitanti riuscirono a salvare le loro case. I vigili percorsero molte strade adiacenti alla zona degli sgomberi per chiedere agli abitanti se volessero lasciare le case ed essere trasferiti, anche se non si trovavano in una zona a rischio. Solo una famiglia accettò la proposta, e se ne pentì molto presto. A distanza di anni, sembra incredibile che la zona demolita sia ancora oggi un territorio brullo, tuttora vuoto; e che pochi anni dopo lo sgombero la Regione costruì una scogliera che avrebbe potuto proteggere dalle mareggiate le case ormai demolite.
In generale, gli abitanti della zona vicina agli sgomberi percepirono tutta l’operazione come un attacco all’intera comunità, non solo agli abitanti le cui case erano state demolite. I trasferiti erano «gente nostra», cioè membri della comunità di abitanti che nel corso dei decenni si era creata su quella frangia di litorale: i loro diritti dovevano essere difesi da tutti. Gli abitanti rimasti hanno dedicato, e tuttora dedicano, un’enorme quantità di tempo ed energie a decodificare le complesse dinamiche politiche, sia interne che esterne al quartiere, che permisero quella operazione. Ma nel frattempo i trasferiti si dovettero adattare alla difficile situazione della vita nei residence, dall’altra parte della città, con altri vicini e soprattutto un futuro incerto.
Così, a partire dal 2010, la storia della “punta”, già la parte più vulnerabile del quartiere per la sua posizione geografica, e anche quella socialmente più complessa, si divise in due. L’operazione sembrava agli abitanti motivata dalla necessità di iniziare a svuotare il quartiere per preparare un progetto speculativo legato al Porto Turistico, il cui patron Mauro Balini venne poi arrestato per bancarotta fraudolenta. La liberazione del litorale dalle abitazioni preparava il cantiere per l’ampliamento del porto: un progetto urbanistico approvato poco dopo lo sgombero e che adesso si sta cercando di risuscitare dopo lo scandalo della bancarotta.
L’episodio lasciò un segno indelebile negli abitanti. Nel 2015, quando iniziai a fare ricerca all’Idroscalo, molti piangevano quando mi raccontavano lo sgombero; altri usavano sempre le stesse frasi per descriverlo, segnando che il lutto non era stato ancora elaborato. Tutte le narrazioni erano permeate dalla necessità di comprendere perché le autorità, con cui fino a subito prima si stava negoziando – lo stesso comune di Roma che qualche anno prima aveva dotato il quartiere di una piazza e dei cartelli con i nomi delle strade – avessero improvvisamente mutato politica. Come avviene per i traumi psicologici, gli eventi superano le comuni capacità di reazione, producendo conseguenze frammentarie e a volte dissociate. Uno dei segni dello stress post-traumatico è lo stato di permanente eccitabilità e nervosismo, «uno stato di costante vigilanza e irritabilità senza sapere perché» (Judith Herman in Trauma and Recovery, 1992). Una donna sfrattata che ho intervistato nel residence prima che vi morisse, alcuni anni fa, diceva che dallo sgombero in poi «basta che me dicono quarche cosa e zompo come ‘ngrillo. Pure se non me la fanno, zompo uguale».
Ma le reazioni allo sgombero non sono solamente individuali e psicologiche, esse si configurano anche come una risposta collettiva a una violenza che ha colpito tutti. Lo sgombero dell’Idroscalo è un caso di displacement, cioè di trasferimento forzato. Queste politiche, che continuano a riprodursi in tutto il mondo, possono considerarsi vere e proprie violenze collettive. Esse non toccano solo gli individui, ma i simboli dei legami tra loro, cioè degli oggetti: le case. In un quartiere auto-costruito come l’Idroscalo, poi, le case sono prodotti di una storia collettiva e la loro demolizione fa crollare anche la rete di rapporti che ha reso possibile agli abitanti rimanere lì durante anni. Con la demolizione delle case viene demolita, o almeno colpita, anche la storia che le ha prodotte, ricordando a tutti quanto in realtà le nostre identità individuali dipendano in gran parte dagli spazi fisici. «Tu non stai a butta’ giù solo una casa: tu estirpi proprio le radici», ha detto un’abitante dell’Idroscalo che ha visto deportare tutti i suoi vicini, le persone con cui era cresciuta, che l’avevano accolta nel quartiere, che si prendevano cura dei suoi figli.
Oltre che l’ambito familiare, quindi, la demolizione ha avuto effetti su un contesto più ampio, che possiamo considerare politico. La fine di un quartiere non è solo la fine di una forma di vita particolare, sempre più rara, e l’imposizione del modello di abitazione standard a una popolazione che ancora riusciva a rimanerne fuori. Ogni quartiere urbano è anche un certo tipo di rapporto con le autorità, una serie di continue negoziazioni politiche su piccola scala. I quartieri auto-costruiti, proprio per il fatto di essere ai margini della legalità, tollerati, censiti e tassati ma mai legalizzati, dipendono più di altri da queste negoziazioni, e dalla capacità della comunità di mantenerle nei limiti dell’accettabile per tutte le parti in gioco. La demolizione rappresenta la fine di queste negoziazioni e la trasformazione completa del rapporto con le autorità. Perciò le reazioni degli abitanti sono politiche: non solo crisi della presenza e angoscia territoriale, ma l’irruzione del rischio di non esistere più sul piano burocratico, l’angoscia di non venire più riconosciuti nel proprio diritto di abitare, di occupare un luogo sulla mappa della città. Quando poi le stesse persone avevano già subito sfratti e deportazioni, per esempio dal centro storico di Roma, il trauma rischia di non potersi risolvere più.
Dalle demolizioni in poi, un gran numero di abitanti dell’Idroscalo sono attraversati dalla necessità impellente di far esplodere le contraddizioni delle politiche pubbliche, a qualunque costo, di svelare la falsa coscienza dello stato, di contraddire il discorso con il quale politici e funzionari pubblici giustificano il loro lavoro e la loro stessa esistenza. Per esprimere quella rabbia, che cova da dieci anni, sembrano non bastare mai le parole, i gesti, le azioni. A dieci anni di distanza, è indispensabile capire quanto quell’operazione abbia creato danni non solo a delle persone specifiche, alle loro famiglie, ai loro vicini, ma alla città intera, alla sua memoria, alle fasce più deboli della sua popolazione e all’opinione che delle istituzioni hanno gli abitanti più vulnerabili. Eppure, tutto fa pensare che, nonostante i danni fatti fino a ora, il Comune sia pronto a farlo di nuovo. (stefano portelli)