Testo e foto di Eva De Prosperis
«È stata l’estate più calda degli ultimi vent’anni, ma anche la più fresca dei prossimi venti». È questa frase gridata al megafono che apre, venerdì 23 settembre, il corteo in partenza da piazza Garibaldi, mentre i giovani studenti sono ormai tutti radunati dietro uno striscione. Siamo a Napoli e come in altre sessantadue città del paese si tiene la manifestazione del movimento Fridays for Future. Studenti delle superiori e studenti universitari si sono dati appuntamento per chiedere di essere ascoltati, a due giorni dalle elezioni.
«Siamo stufi di aspettare la “transizione ecologica”», racconta Ottavia del collettivo del liceo classico Pagano. «Quello che vogliamo è una “rivoluzione ecologica”, non è più tempo di riforme graduali. Ogni mese in Italia c’è una catastrofe ambientale, siamo stanchi, ci stanno lasciando le chiavi di un mondo inabitabile».
Il messaggio degli studenti in piazza è chiaro e disincantato. Non ne possono più delle politiche di greenwashing di partiti e aziende, esigono interventi efficaci e coerenti, che passino prima di tutto dalla riduzione del potere dato alle grandi imprese internazionali. Quella ambientale è una questione sociale e collettiva, che riguarda i singoli ma soprattutto i poteri economici e le grandi imprese colpevoli delle devastazioni che hanno causato la crisi climatica. Le stesse aziende – sottolineano – che dal 2003 interferiscono con i loro percorsi scolastici attraverso i PCTO, i cosiddetti “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”, un modello di aziendalizzazione della scuola che si è reso già colpevole della morte di tre giovanissimi studenti.
A metà della manifestazione, all’altezza della sede dell’università Federico II di corso Umberto, il corteo si ferma per un dive-in. Alcuni studenti vestiti con tute bianche si stendono sui gradini della facoltà accompagnati da striscioni che maledicono senza troppi giri di parole Confindustria. I manifestanti portano con loro la rabbia per le morti di Lorenzo Parelli, Giuseppe Lenoci e Giuliano De Seta: si tratta dei tre studenti rimasti uccisi nell’arco dei soli ultimi otto mesi durante le ore di alternanza scuola-lavoro, un modello introdotto con il pretesto di avvicinare gli studenti al mondo del lavoro, ma che nella migliore delle ipotesi si rivela una lunga perdita di tempo (qui un nostro reportage) e nella peggiore un vero e proprio allenamento allo sfruttamento, con addirittura possibili risvolti tragici.
Le compagnie che hanno devastato il paese e il pianeta – spiegano con chiarezza gli studenti – sono le stesse per le quali i ragazzi si ritrovano a lavorare gratis e in ore curriculari, e che invece vogliono vedere fuori dalle loro scuole. L’appello è per una riforma radicale che veda la scuola ricostruita dalle basi e che metta al centro lo studente e i suoi desideri, il suo diritto di scegliere nel corso del tempo che tipo di cittadino diventare. «Il capitalismo non ha portato nulla di buono, né per la dignità delle persone né per la salvaguardia del pianeta. Da decenni hanno distrutto la scuola e un appiattimento verso il settore privato non è e non può essere la risposta», spiega Anna del liceo Fonseca.
Tuttavia, i ragazzi sono consapevoli che senza una terra da abitare o delle risorse per sopravvivere qualunque rivendicazione politica è inutile. «Riusciamo a immaginare la fine del mondo ma non la fine del capitalismo», scherza Nina, studentessa del Vittorio Emanuele. Come moltissimi altri suoi coetanei è costretta a crescere osservando con angoscia le conseguenze della devastazione ambientale, che da decenni si manifestano ormai quotidianamente in una lunga e ininterrotta crisi «che qualcuno ancora chiama maltempo». La presa d’atto di una crisi climatica è forte, ed è collegata con le catastrofi quotidiane, come la recente tragedia del ghiacciaio della Marmolada, che fondendo ha provocato undici vittime.
«Ognuno di noi ha il dovere di mettere in atto le proprie possibili best practices come il riciclo e il riuso, ma finché esisteranno grandi aziende alle quali è permesso di disboscare, di trivellare, di inquinare, non c’è riciclo che tenga, saremo spacciati», racconta Marilù, figlia di una generazione nata e cresciuta su una terra che scotta; una generazione stufa di aspettare, mentre grosse compagnie e potenze globali non solo non si attivano per invertire la rotta, ma danno vita a nuove guerre per l’accaparramento delle risorse: «Anche quella in Ucraina è una guerra fatta in nome dei profitti, basta guardare al caro-vita e all’aumento delle bollette. Se la transizione energetica fosse stata un investimento prioritario negli ultimi anni, forse oggi non ci troveremo in questa situazione», conclude Marilù.
Alla fine del corteo tra i manifestanti si contano quasi cinquecento persone, a cui vanno aggiunte le altre migliaia in tutto il paese. Il movimento di Fridays For Future è una efficace rappresentazione di una generazione che si considera maledetta, che vede davanti agli occhi un presente e un futuro di guerre, devastazioni ambientali e ingiustizie sociali, un destino annunciato da decenni ma con il quale sono loro a dover fare i conti. Questi giovani manifestano tutta la loro consapevolezza e indignazione nei confronti dei compromessi politici, delle pratiche di greenwashing e della colpevolizzazione dell’individuo in quanto essere inquinante. «Non ci fermeremo», racconta però Andrea, studente del liceo Pansini. «Abbiamo gridato con forza, a pochi giorni dalle elezioni, che siamo stanchi di essere presi in giro dalle forze politiche, i primi responsabili della devastazione ambientale e della morte dei tre studenti durante le ore del PCTO. È tempo per una rivoluzione ecologica, e a pagarla dovranno essere le aziende, non i cittadini».
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