I redattori di un giornale mi hanno detto: «Scrivi un pezzo su Buren, l’artista che espone al museo Madre». «Ma io non so nulla di arte contemporanea», ho risposto. «Se scrivi, ti paghiamo il biglietto». Allora via, ho marciato a passi decisi lungo via dei Tribunali, con in mano una pizza schiacciata a portafoglio. Quando sono entrato al Madre, l’uomo dei biglietti mi ha sussurrato conciliante: «Oggi è lunedì e l’ingresso è gratuito». Ho sorriso amaro di rimando.
«Aspetta!», ho detto all’uomo dei biglietti. «Dove si trova la mostra di Buren?». L’uomo ha capito che non so nulla di arte contemporanea e ha chiosato: «Non è una mostra. Si tratta di un’installazione e sta a sinistra». Mi sono avviato lungo il corridoio d’ingresso fra specchi che riflettevano i miei movimenti volenterosi. Accanto una guardia del museo ha detto ai turisti che stavano entrando: «Prego signori, si rechino in biglietteria per i ticket d’ingresso».
Poi le mie falcate hanno perso di vigore. Ero perplesso. L’esposizione di Buren sta a sinistra, ma a sinistra di cosa? In preda al disorientamento ho rischiato di capitombolare su gradini molto insidiosi, lucidi e coperti da malefiche strisce bianche e nere. Forse non sono l’unico sbadato, perché dai gradini spuntavano gialli cartelli che avvertivano: “Mind the steps“. Nell’angolo in alto d’ogni avviso era stampigliato il logo del museo.
Ho affrontato le prime rampe, a ogni pianerottolo c’era un televisore che intrappolava primi piani di visi umani. Che sia questa l’opera di Buren? Non lo era. Ho osservato un viso in bianco e nero con occhiali da sole e rughe espressive. Alle pareti ho notato targhette con frecce e parole in due lingue. Una, per esempio, recitava: “Courtyard” e “Cortile”. Un’altra annunciava, in inglese, la vicinanza del “Bookshop” (inglese), o “B’shop” (italiano). Ho sperato, invano, di trovare una freccia accompagnata dalla scritta: “Buren”.
Sono entrato in una sala dalle piastrelle variopinte, le pareti affrescate con colori sgargianti. Una donna con il cartellino appuntato al petto mi ha sorriso e io non ho avuto il coraggio di chiedere informazioni. Ho proseguito l’esplorazione con decisa circospezione – l’installazione da recensire, sussurravo a me stesso, non si potrà sottrarre al mio sguardo attento. Ho incontrato un angelo volante esploso in frantumi, una statua neoclassica intenta a sorreggere un cumulo di stracci, una donna regale di Anselm Kiefer cupa e inquietante, un arazzo con mappa geografica che segna i territori degli “Arabes Seenites”. Ma non Buren.
Un vago senso di sconforto ha abitato il mio animo: cosa racconterò ai redattori? Smarrito, ho seguito gli strani gesti di un’alta donna nordica: s’avvicinava alle finestre del museo e guardava fuori la città con attenzione contemplativa. L’ho imitata. Ho visto panni stesi su un balcone che sporgeva da pareti scorticate. Nel vicolo, in alto, un arco puntellava le facciate di due edifici accosti – d’improvviso m’è tornata alla mente la Liguria interna dei carruggi. Dalla finestra di un corridoio m’è apparso un cortile terrazzato dalla pavimentazione scarlatta. Al suo interno qualcuno aveva eretto una barriera di ferraglie arrugginite e reti di materasso. Dietro di me un dipinto rievocava la paurosa marcia dei ciechi di Bruegel.
Nella sala curata da Richard Long le pareti sono dipinte con disordinate chiazze di colore sovrapposte. Anche fuori dalla finestra il palazzo di fronte mostrava una verniciatura discontinua, irregolare e incostante – finalmente un dialogo fra il dentro e il fuori, ho pensato. Mi sono ricordato che nessuno mi ha chiesto di scrivere di Richard Long e del sentimento dei luoghi, e allora sono uscito nel cortile alla ricerca di Buren. Nel bianco, vuoto spazio aperto mi sembrava di essere un manichino in una vastità surreale. Colto dalle vertigini mi sono rifugiato nel B’shop, dove uno schermo lanciava immagini di Venezia in gondola e della Siria in guerra. Sono fuggito in scattante velocità, ho sfiorato un pesante cubo nero silente, ho percorso una stanza di teschi coperti da specchi che raffigurano i nostri volti spauriti. Una soglia avvertiva perentoria: “Chi entra esce. Chi esce entra”. Cercavo il mio artista in un incubo con i muri bianchi pittati di fresco.
Finalmente ho incontrato una seconda donna in divisa da museo e ho domandato timido e trafelato nuove informazioni. «L’installazione di Buren si trova all’ingresso, a sinistra della biglietteria». Ho disceso con mestizia le scale sotto lo sguardo giudicante dei volti sui televisori. All’ingresso ho individuato la targhetta dedicata a Daniel Buren: “Axer/Désaxer“. Si tratta di un’opera “in situ” dove gli specchi alle pareti e la pavimentazione a strisce oblique bianche e nere accolgono il visitatore in uno spazio infido. Stordito, mi avvicino all’installazione e per poco non inciampo ancora nello stesso gradino, il perfido scalino in deformazione prospettica di Daniel Buren. Intorno a me gli avvisi gialli ammonivano gravi: “Attenzione ai gradini. Museo Madre. Napoli”. (francesco migliaccio)
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