La Balena occupa da una settimana il terzo piano dell’edificio del Forum delle culture. In pubblico avete dichiarato più volte di essere contro la politica dei grandi eventi. Perché allora non prendete una posizione più netta sul Forum delle culture che dovrebbe svolgersi a Napoli nel 2013?
Noi vogliamo affermare una posizione di autonomia della cultura dalla politica. Non ci proponiamo per gestire dei segmenti del Forum delle culture. Non abbiamo occupato questo posto per gestire alcunché. Non ci interessa. Non cerchiamo legittimazione verso le istituzioni. Vogliamo denunciare la mancanza di spazi, ma non chiediamo spazi per noi. In questa prima fase siamo rimasti sul piano dei principi per rendere chiara questa posizione. Chiediamo trasparenza nell’utilizzo delle risorse. Chiediamo che nelle scelte di politica culturale venga premiato il talento, la qualità delle proposte. Ma non siamo qui per avanzare la nostra candidatura. Vogliamo influire sulle politiche culturali, ma vogliamo anche disporre di un tempo per elaborare una posizione condivisa sui metodi, vogliamo che nasca dall’azione.
Mantenere una posizione di principio sulle questioni aperte delle politiche culturali non rischia di creare equivoci sulla natura della vostra azione? Il sindaco ha usato parole concilianti nei vostri confronti. I politici di destra hanno chiesto lo sgombero. Tutto come da copione. Non vi preoccupa il rischio di strumentalizzazioni?
Il nostro interlocutore è l’intera città. In pochi giorni di occupazione la Balena è già diventata qualcosa di più ampio, adesso comprende altri collettivi e anche tanti singoli cittadini. Il nucleo originario non è un organo di gestione ma di coordinamento. Questo non vuol dire che siamo disposti a ripercorrere le solite strade. Non vogliamo diventare un contenitore delle vertenze sociali aperte in città. Siamo alla ricerca di una nuova soggettività politica. Rifiutiamo di darci una forma legale, definita. Non firmeremo protocolli d’intesa. Non formeremo un’associazione. Lunedì, in una assemblea pubblica, presenteremo il nostro progetto e lanceremo un appello alla città.
Voi ribadite che l’interlocutore è la città, non le istituzioni. Ma non potete ignorare di essere sotto i riflettori di una parte ben identificata della città. Al di là delle reazioni dei politici, la vostra azione ha dato una scossa a tutto l’ambiente della produzione artistica e culturale cittadina. Nei mesi scorsi, per esempio, sono sorti altri centri di dibattito sulle politiche culturali, forse con caratteri più negoziatori e con richieste di inclusione più esplicite. La vostra mossa obbliga questi gruppi a emergere, a rendere pubblico un dibattito finora confinato tra gli addetti ai lavori. In questo contesto, qual è la vostra specificità?
Non possiamo ignorare il contesto in cui operiamo. Non possiamo far finta di non sapere che negli anni, nei decenni trascorsi, la maggior parte degli artisti, degli intellettuali, degli operatori culturali della città non hanno aperto bocca sulle scelte della politica. In cambio hanno ottenuto un finanziamento, un appoggio, uno spazio di agibilità piccolo o grande che fosse. In questo modo hanno declinato ogni responsabilità politica, per il proprio tornaconto hanno lasciato mano libera a chi deteneva il potere. Noi, lo ribadiamo, non siamo qui per questo. Anzi, siamo convinti che non sia più possibile, in tutti i settori, riproporre la solita richiesta di assistenza al pubblico. Gli spazi ci sono, ma non vengono utilizzati. Anche i mezzi ci sono, i mezzi per la produzione culturale, ma restano a marcire nei magazzini. Noi siamo passati all’azione, abbiamo aperto alla città uno dei tanti spazi esistenti, un edificio per il quale non era stata prevista alcuna destinazione d’uso, uno dei tanti contenitori vuoti che le amministrazioni non riescono a far vivere. E abbiamo intenzione di attrezzarci anche dal punto di vista dei mezzi di produzione. La nostra prospettiva in questo luogo è di lungo periodo. In questo senso, sono i cosiddetti grandi eventi a mancare di prospettiva. I soldi che verranno bruciati in modo estemporaneo nel Forum delle culture andrebbero ripartiti in più zone della città, investiti in progetti di largo respiro, capaci di espandersi e consolidarsi nel corso degli anni. Le politiche culturali hanno bisogno di continuità, i destinatari devono essere i cittadini non i visitatori di un giorno.
Nelle vostre prime uscite avete ospitato la voce dei collettivi che stanno mettendo in pratica, in altre parti d’Italia, una serie di esperienze che evidentemente giudicate affini: il teatro Valle, l’ex cinema Palazzo, il Teatro Coppola Occupato, i lavoratori dell’Arte di Milano e il S.a.l.e Docks di Venezia. Nelle prime assemblee avete invitato anche l’assessore comunale alla partecipazione Lucarelli, che invece si sta distinguendo per un’idea abbastanza formale di questo coinvolgimento, che non sembra tenere il passo con l’imprevedibilità delle istanze, con l’irrequietezza e la conflittualità delle diverse aggregazioni che si formano nella società. Qual è la vostra collocazione nel dibattito che si sta sviluppando in Italia sul lavoro culturale e la partecipazione?
L’orizzonte dei nostri obiettivi si estende oltre la nostra città. Quando mettiamo in campo le problematiche del lavoro immateriale – che nel nostro paese costituisce un terzo della forza-lavoro pur non essendo regolamentato in alcun modo –, il discorso si proietta inevitabilmente su un piano nazionale. In diversi luoghi in questo momento esistono pensieri e azioni che si stanno intrecciando intorno a questo tema. Non si tratta di una vertenza corporativa. Non stiamo parlando solo dei lavoratori dello spettacolo: attori, tecnici, performer; ma di tutti i lavoratori della conoscenza e della produzione culturale: dell’editoria, della comunicazione e di tutte quelle professioni che fanno della prossimità e trasversalità lavorativa la propria ragion d’essere. C’è chi ha chiamato quest’amalgama ancora indefinito una sorta di Quinto Stato di lavoratori invisibili. Ecco, condividiamo questa definizione e ce ne sentiamo componente attiva. Con il nostro lavorio politico intendiamo scomporre le categorie, rompere le specializzazioni e tentare di dar vita a forme nuove di organizzazione e mutualità. Consideriamo i mestieri dell’immateriale come interdipendenti e vogliamo costruire la possibilità di sottrarre il Quinto Stato al ricatto di condizioni professionali sottocosto e non dignitose per i lavoratori. Se ci fermiamo noi, si fermano interi comparti produttivi… (luca rossomando)