Un saggio di Antonio Pascale mette in questione le responsabilità dei nuovi narratori
Il 2007 è stato l’anno delle inchieste, vere o presunte. O forse è stato l’anno in cui lo stanco giornalismo italiano si è reso finalmente conto di non leggere più il paese, di offrire interpretazioni stereotipate, immagini scollate dalla realtà e storie banali, di successo e perfino troppo poco spettacolari. E allora giù con fiumi d’inchiostro su riviste spesso patinate, dove al dolore del mondo (e degli altri) vengono affiancate pubblicità, belle donne ed efebi dallo sguardo perso nel vuoto.
Con il discorso delle inchieste è ripreso anche quello dell’autore, della sua responsabilità e correttezza, e una ripresa del new journalism anglosassone, quello stile sviluppato negli USA e in Gran Bretagna in cui il racconto del reale si arricchisce di note personali, interpretazioni, venature letterarie. È stato finalmente rieditato Truman Capote e Gomorra di Roberto Saviano è diventato il modello di riferimento per molti (forse troppi) giornalisti finora annichiliti dall’esiguità delle battute degli articoli per i quotidiani.
Il nostro paese ha avuto inchieste di tutto rispetto in passato fatte da autori davvero immortali (Pasolini, Sciascia, Cederna, Bianciardi solo per dare degli esempi) ma quelle che compaiono oggi sono inchieste diverse: pulite, a modo, che spesso non danno più fastidio a nessuno, diventando di frequente degli esercizi di stile. L’autore, come dire, prevale sull’oggetto.
Ma tornando al 2007, è stato l’anno in cui uno dei maggiori quotidiani italiani, La Repubblica, ha trasformato la propria struttura dedicando alcune pagine interne proprio all’inchiesta, affidandole alle sue firme più o meno prestigiose, dando così l’impressione di essere un quotidiano di nuovo tipo e strettamente legato ai tempi. In realtà ci si limita a propagandare la visione della vita di una classe dirigente e di un’intelligentsia arrivata alla frutta e (con rare eccezioni) pronta a sostenere il potere democratico e un’economia della disuguaglianza.
Alcuni tra gli autori del volume Il corpo e il sangue d’Italia. Otto inchieste da un paese sconosciuto, edito dalla Minimum fax, hanno continuato a fare inchiesta anche quando non andava di moda, altri sono saliti rapidamente sul carro (lo stile) del vincitore, riscoprendo il fascino del torbido e riprendendo questioni (genere e criminalità) da una prospettiva generazionale nuova ma non per questo migliore. Tuttavia, il libro collettivo a cura di Christian Raimo, un contributo alla discussione sull’inchiesta e sullo stato delle cose nel nostro paese, lo da. E in particolare attraverso l’intervento di Antonio Pascale, scrittore di origine casertana con all’attivo diversi libri dallo sguardo delicato che hanno contribuito a dar vita a una letteratura dell’umano e della realtà dei nostri tempi. Questa volta Pascale invita a riflettere sul tema del dolore, che poi richiama al dovere etico dell’autore, alla sua responsabilità nella rappresentazione del male.
Il suo saggio, intitolato Il responsabile dello stile, parte dagli anni Ottanta, dal Live Aid (l’enorme bolgia musical spettacolare in sostegno dell’Africa, continente di tutti i mali e tutti i dolori) e dall’arroganza inconscia dell’Occidente. Si sposta poi sull’esplosione della pornografia, ci accompagna alla scoperta del corpo artificiale (si direbbe quasi senza organi per la sua plasticità e assenza di genere) del cinema di fantascienza, horror e dei cartoon giapponesi. L’erotismo soppiantato dalla pornografia (quindi dalla chiarezza dell’atto sessuale tout court senza veli e allusioni) diventa metafora di un tempo in cui l’oggettività diventa padrona snaturandosi, e diventando voyeurismo, meccanicismo della rappresentazione, privando lo spettatore e il lettore di una prospettiva intima, anzi lacerando l’intimità del pubblico. Riprende poi, per essere chiari, la famosa polemica sul “carrello” di Gillo Pontecorvo in Kapò, accusato dall’ostinato Jaques Rivette di oscenità e mancanza di etica. Da Kapò alla narrazione del male della camorra il passo è breve, almeno secondo l’autore casertano, che si addentra nel terreno minato dello stile di Saviano e nel suo metodo. È raro, di questi tempi, trovare un commento sull’autore di Gomorra privo tanto di invidia e acredine, che di acquiescenza entusiastica; ed è per questo che le considerazioni di Pascale su un testo del famoso autore nei giorni del funerale di Annalisa Durante aprono un dibattito quanto mai necessario. La verità è quella dei fatti o quella dell’autore? E quanto l’autore può spingersi al punto di utilizzare gli elementi del reale per costruire metafore del male e archetipi culturali? Dove risiede l’etica della scrittura? Nell’effetto e nello spettacolo (convinciamo tutti di una cosa) oppure nel porre dubbi. Da curatore dell’antologia BestOff 2006, Pascale si assume tutta la responsabilità di aver pubblicato un pezzo poi contestato da coloro più vicini ai fatti (l’autrice del Diario di Annalisa), e in particolare affronta la veridicità di uno squillo di cellulare che proveniva dalla tomba della ragazzina, episodio secondo alcuni del tutto inventato. E quindi si arriva alla domanda che più ci interessa: «uno scrittore può sacrificare una dose di verità per una maggiore giustizia ed efficienza narrativa (?)». Risposte non ne fornisce, Pascale, ma formula un invito a cui tutti dovremmo rispondere, ovvero la costruzione di una coscienza condivisa (da autori e lettori) che aiuti a stanare il “troppo che stroppia”, che recentemente sta diventando l’ingrediente principale dei reportage della new wave di giornalisti narratori. Elemento che purtroppo emerge anche da alcune delle inchieste contenute nello stesso volume che ospita il saggio di Pascale.
Riguardo alla narrazione della criminalità organizzata, troppe emulazioni sono seguite a Gomorra, e ancora ne seguiranno, brutte copie di cui nessuno dovrebbe sentire la necessità: emulazioni di stile, di argomento, di ambientazione. D’altra parte l’inchiesta si regge sull’esperienza vissuta e se qualcuno fa proprie informazioni riservate senza riscontri personali, è proprio lo stile a risentirne, e con esso tutti noi, autori e lettori. (-ma)
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