Intervista ad Antonio Marfella, medico dell’istituto dei tumori Pascale, che si è sottoposto a sue spese ad analisi fatte fino a quel momento solo sugli animali. Nel suo racconto i nessi tra il massacro del territorio e i danni alla salute
Antonio Marfella lavora come medico all’Istituto dei tumori Pascale di Napoli. In questa intervista descrive il percorso che lo ha portato da «una vaga coscienza dei problemi nella gestione del ciclo dei rifiuti», a impegnarsi nello studio e nella denuncia del massacro del territorio compiuto da camorra e istituzioni e delle sue conseguenze sugli esseri umani.
«Fino a due anni fa non avevo idea della gravità della situazione. E nemmeno mi rendevo conto, come penso il novanta per cento dei napoletani, del livello raggiunto dal commercio illegale di rifiuti tossici. Il primo passo è stato l’invito del dottor Comella, anche lui medico del Pascale, a partecipare alle Assise di palazzo Marigliano. In quel momento il Pascale era in difficoltà economiche. I farmaci per la cura dei tumori costavano troppo e la regione non intendeva farsene carico. Comella presentò un appello. Io lo accompagnai in qualità di farmaco-economista. Il mio ruolo è quello di monitorare la spesa farmaceutica dell’istituto. In quel periodo, nel marzo 2006, i ragazzi dell’Assise raccoglievano documenti relativi all’allarme rifiuti tossici. Invitavano ogni domenica professionisti, esperti, rappresentanti dei movimenti. Tutto il loro lavoro viene svolto in maniera gratuita, e ci tengo a sottolinearlo. In questi giorni i giornali raccontano che per organizzare un convegno sulla situazione ambientale in Campania sono stati chiesti duecentocinquantamila euro per un giorno. Da quel momento ho aperto gli occhi anche sull’informazione che riguarda questi argomenti. Avevo saputo, per esempio, dell’inceneritore di Acerra e degli scontri dell’agosto 2004, ma come molti pensavo che fosse un’esagerazione ribellarsi in quel modo per una cosa apparentemente normale nel resto d’Europa. Poi mi sono reso conto delle enormi differenze tra la correttezza impiantistica europea, ancorché su cose che non condividiamo come gli inceneritori, e l’ecomostro di Acerra, in cui si sommano tutte le tragedie che ha vissuto la nostra regione».
Quando ha preso coscienza dell’entità del traffico di rifiuti tossici sul territorio della Campania?
«Il momento chiave è stato il 13 maggio del 2006. Per volontà di Gerardo Marotta organizziamo un incontro al Pascale in cui il relatore principale è il magistrato Donato Ceglie, che opera a Santa Maria Capua Vetere. Ceglie viene a raccontare i risultati delle indagini nella provincia di Caserta. La sua relazione ci lascia di sasso. In certi comuni nel giro di due o tre anni si è verificato un incremento del quattrocento per cento delle esenzioni concesse per patologia tumorale. Sono quei comuni che ad aprile 2007 verranno riconosciuti a maggior rischio di patologie tumorali e malformative da parte dell’Istituto Superiore della Sanità».
Che cosa accade dopo questa conferenza?
«Gerardo Marotta decide di costituire un comitato di difensori civici in cui vengono inserite una decina di persone, un magistrato emerito di Cassazione, un geologo, medici, che accettano gratuitamente di farne parte. In questo modo, seguendo i comitati che vengono all’Assise, scopriamo che approfittando dell’incapacità delle istituzioni a gestire il ciclo dei rifiuti, la camorra dissemina ovunque rifiuti tossici provenienti dalle fabbriche del nord.
«Nel frattempo viene da me il colonnello in pensione Giampiero Angeli, che abita a Castelvolturno. Angeli mi chiede di farsi le analisi, per scoprire quanto di quei veleni sia entrato nel suo corpo. Io in quel momento ero il primario del laboratorio del Pascale e all’improvviso scopro che la nostra regione pur disponendo di ottocento laboratori, non ne ha uno che sia in grado di fare sull’uomo quei dosaggi che si fanno sugli animali. Quindi non posso fare ad Angeli le analisi che mi chiede.
«Così nel giugno 2006 andiamo alla Regione come difensori civici e facciamo due richieste. La prima è di istituire un registro tumori a Caserta, che ne è sprovvista, mentre esiste a Napoli e Salerno. La seconda è di avviare un monitoraggio sull’uomo, dal momento che sulle pecore aveva dato risultati spaventosi. Prima di avviare il mega-inceneritore di Acerra chiediamo di misurare il grado di inquinamento non solo delle pecore ma delle persone».
Che risposta viene data alle vostre richieste?
«Le richieste vengono ignorate. In termini economici il registro tumori costerebbe centomila euro all’anno, mentre il laboratorio di tossicologia non più di cinquecentomila euro all’anno. Sono cifre irrisorie. Per il registro tumori dicono che va bene quello dell’Asl Napoli 4, che tra l’altro continua a dire che il problema ad Acerra non è la mortalità per tumori ma per patologie cardiovascolari.
Il colonnello Angeli nel frattempo si fa le analisi attraverso la medicina del lavoro, a Marghera, dove gli dicono che ha lo stesso profilo dei dipendenti di Porto Marghera, solo che lui non è un operaio della fabbrica, ma un pensionato di Castelvolturno, a mille chilometri da lì. In questo modo scopre la correlazione con le indagini di Ceglie che aveva detto che a cinquecento metri da casa sua avevano scaricato i fanghi di Porto Marghera. Angeli comincia a dedicarsi a tempo pieno a questa storia ed è lui a indicarmi i laboratori per fare a mia volta le analisi. Nella scelta consideriamo anche Marghera, ma sappiamo che sono consulenti della Regione Campania per altre indagini e riteniamo opportuno non rivolgerci a loro. Sul National Geographic leggiamo che i migliori laboratori per questo tipo di analisi si trovano in Canada.
«In quello stesso momento Anna Fava, una delle attiviste dell’Assise, si trova ad Acerra mentre sta morendo il pastore Vincenzo Cannavacciuolo, che aveva denunciato più volte le malattie, le malformazioni e la conseguente moria delle sue pecore. Cannavacciuolo è un uomo forte, che ha sempre vissuto in campagna. Il tumore lo uccide in un mese, senza nemmeno il tempo per fare una diagnosi. La sua famiglia viene a sapere che stiamo facendo queste analisi, credono che siano analisi normali e visto che nessuno gliele fa, attraverso Anna fanno un prelievo e me lo portano. Vincenzo non è mai arrivato al Pascale, a me è arrivato solo il suo sangue, oltretutto in maniera cosiddetta esibita, per cui sono i figli che mi dicono che è del padre. A quel punto chiedo anche al fratello, Mario Cannavacciuolo, di fare un prelievo. Li facciamo insieme, io e lui, e poi mandiamo tutto in Canada. E aspettiamo».
Quali sono i risultati delle analisi?
«Bisogna sapere che su centinaia di sostanze tossiche solo alcune permangono a lungo nel corpo umano. Le diossine e diossino-simili si accumulano nel grasso e vengono smaltite in dieci, undici anni, per questo rappresentano un utile marcatore di inquinamento anche se non sono le più inquinanti o le più rappresentative. In ogni caso dopo tre mesi arrivano le analisi e ci accorgiamo di essere rimpinzati non solo di diossine, che comunque è strano perché in Campania non abbiamo inceneritori e le diossine vengono prodotte in seguito alla combustione, ma anche che molte sostanze presenti nel nostro sangue sono state bandite dal ciclo produttivo industriale nel 1980. In termini di diossino-simili e non di diossina pura, siamo su livelli pari a quelli dei cittadini più inquinati residenti in zona Caffaro, a Brescia, dove una fabbrica che produceva policloro bifenile ha sversato per cinquant’anni veleni nel territorio. Inoltre siamo quattro persone che vivono in posti lontani, io a Napoli, Angeli a Castelvolturno, i due pastori ad Acerra».
Quali sono state le reazioni delle istituzioni quando ha reso pubblici i risultati delle analisi?
«Prima mi hanno criticato tecnicamente, dicendo che avevo avuto poco sangue dal pastore morto, e questo lo riconosco. Ma gli altri erano prelievi abbondanti, fatti secondo scienza e coscienza. E in più noi tre siamo ancora vivi, li possiamo rifare. Me li fate voi, gli ho detto. Ve li ripago, sarei ben contento di essermi sbagliato. Ma non mi hanno mai risposto.
«Più tardi c’è stato un consiglio comunale ad Acerra in cui tutto l’establishment degli scienziati nazionali e regionali è stato riunito per convincere gli acerrani che non c’è nessun problema di salute nella loro terra e che, nonostante verrà aperto l‘inceneritore più grande d’Europa, possono stare tranquilli che non farà grande danno. Ma in quella occasione hanno trovato una forte opposizione da parte nostra, che abbiamo ribadito che la situazione epidemiologica non è tale da stare tranquilli; e che prima di aprire l’inceneritore bisogna avere la certezza di quello che sta succedendo ad Acerra, perché le pecore muoiono, la Montefibre ha inquinato, il consiglio dei ministri l’ha dichiarata zona disastrata da diossina… L’inceneritore doveva partire a ottobre 2007, e dicevano che da febbraio 2008 sarebbero partite le analisi. Eravamo a giugno. Io gli dicevo, in tre mesi si possono fare duecento persone. Non lo potete fare? Lo faccio io. L’ho fatto per quattro persone a mie spese, non ci riuscite voi che siete lo stato, la regione, l’istituto superiore della sanità? Perché a mio parere la gente di Acerra è già piena di diossina. E se è così, non si può fare l’inceneritore da seicentomila tonnellate, ma al massimo uno uguale a quello europeo, cinque volte più piccolo. E loro non stanno mollando neanche su questo, sulle dimensioni. Parlano solo di inceneritori quando non esiste un solo sito di compostaggio in tutta la regione e non è stata avviata la raccolta differenziata. Il piano regionale Paser ha individuato disponibilità di biomasse da bruciare per fare energia elettrica: nel 2006 erano un milione e mezzo di tonnellate l’anno, qualche mese dopo, nel 2007, erano diventate di tre milioni e mezzo. In base a questo hanno programmato una serie di inceneritori, che pian piano abbiamo scoperto perché ci hanno chiamato le comunità – San Salvatore Telesino, Orta di Atella, Reino – per i quali sono stati già pagati ventitre milioni di euro, dei quali sei milioni già anticipati per costruire una decina di inceneritori a biomasse più piccoli, da cento a centocinquantamila tonnellate. E anche se la comunità riesce ad opporsi, a me risulta che con questi soldi a Reino chi ha preso l’appalto si è già comprato tutti i terreni, espropriandoli alla metà del prezzo; cioè l’affare è già fatto, se si fa l’inceneritore ci guadagnano con l’inceneritore, altrimenti sono già proprietari dei terreni e poi sarà colpa nostra, di chi si oppone, se non hanno fatto l’inceneritore».
Negli ultimi giorni dell’anno è accaduto un evento forse marginale rispetto alla drammatica riapertura dell’emergenza, ma in realtà di grande valore simbolico per capire la gravità della situazione.
«Poco prima di Natale sono state abbattute le ultime pecore presenti nella piana tra Napoli e Caserta. In questa zona abbiamo abbattuto circa centomila pecore in cinque anni. Mario Cannavacciuolo, il pastore di Acerra che ha fatto le analisi insieme a me, è diventato una sorta di ultimo dei Mohicani. E la beffa finale è che, mentre finalmente dovrebbe partire il monitoraggio di diossine che con tanta fatica abbiamo ottenuto da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, sono stato informato che proprio i pastori di Acerra, unici e mai smentiti testimoni di un disastro ambientale negato, sono stati esclusi, nonostante esplicita richiesta scritta, dalle analisi a spese dello Stato, che invece alle loro pecore è stato eseguito almeno quattro volte.
«Noi ci chiamiamo Pecoraio, Pecoraro, Pecora, perché da millenni una delle caratteristiche del panorama di Terra di lavoro sono le pecore. Adesso i pastori stanno solo sul presepe. Abbiamo sterminato i nostri indicatori ambientali. A livello biologico non abbiamo più nessun segnalatore, c’è la terra ma i risultati possono variare di molto secondo il punto dove si fa il prelievo. Inoltre, quelli dell’Arpac, quando vanno da soli a fare le analisi dicono che tutto è a posto, poi li chiama il magistrato e gli chiede di rifarle, a Lo Uttaro per esempio, e allora si scopre che il posto è inquinatissimo. Lo ha detto anche Barbieri, il presidente della commissione parlamentare dei rifiuti. Allora il direttore dell’Arpac gli ha risposto che loro hanno solo lo 0,2 del Pil regionale. Ma questo io lo sto dicendo da due anni. In tutta Italia questi organismi prendono in tutto cinquecento milioni l’anno, ma la nostra regione rappresenta il quaranta per cento dell’inquinamento del territorio nazionale quindi deve avere il quaranta per cento dei finanziamenti, ovvero duecento milioni; e in più la capacità di polizia giudiziaria, cioè la possibilità di intervenire autonomamente, non quando lo chiede il magistrato. Sono gli unici insieme alla Val d’Aosta a non averla e non la vogliono perché così stanno più tranquilli».
In questi due anni di crisi ricorrenti ha registrato una maggiore presa di coscienza da parte della popolazione e da parte di chi riveste maggiori responsabilità di governo?
«Il controllo in questa regione è fatto solo dai movimenti, dalla gente che si sta svegliando ma non fa riferimento ai partiti. Gli unici che hanno ancora un rapporto diretto con la popolazione sono i sindaci, che rispondono a chi li elegge. Adesso passo per esperto del ciclo integrato dei rifiuti, ma sono appena due anni che ci ho capito qualcosa. Invece mi capita di incontrare consiglieri comunali, regionali, onorevoli di tutti i colori politici che non hanno alcuna idea di quello di cui si parla. L’unica soluzione è che non ricevano più una lira da gestire. Chiudere i rubinetti. Io non darei più soldi al commissariato. E comincerei a coinvolgere i cittadini, a partire dalla raccolta differenziata. Invece sentiamo parlare del raddoppio del commissario. Ma il costo dei commissari e dei loro staff verrà raddoppiato o dimezzato? Inoltre arriveranno altri duecento milioni per le bonifiche. È come pensare alla ricostruzione mentre siamo ancora in guerra. La guerra dei rifiuti non è finita e non la stiamo vincendo. Anzi, finanziamo gli stessi nemici che ci bombardano. È una strategia a livello governativo. Ma nessuno si creda fuori dal problema. Chi pensa di fare i soldi con l’inceneritore più grande d’Europa mangiandosi i soldi dello stato, in ogni caso respira qui, mangia qui, e si ammalerà comunque, anche se va a Capri. E infatti mi arrivano notizie di figli di noti clan che si prendono i tumori a trent’anni. E qualcuno mi manda messaggi: cominciamo a capire. Non si può mantenere il controllo del territorio se lo avveleni. Anche l’ordine dei medici ha finalmente prodotto un comunicato che prende sul serio la gravità della situazione. È importante perché si tratta di un ordine istituzionale. Finora hanno sottovalutato il problema, ma ormai il muro è stato rotto, e poi un medico guadagna sulle malattie, di per sé non farà mai l’allarme sulla prevenzione. I medici fino ad oggi l’hanno detto, anche in modo corretto, ma senza allarme».
Le statistiche sull’incidenza dei tumori, sulle malformazioni, sulla mortalità in certe zone possono aiutarci a decifrare i rischi per la nostra salute, possono stimolare interventi di prevenzione o addirittura scoraggiare le istituzioni dal prendere misure dall’impatto ambientale devastante come si preannuncia l’inceneritore di Acerra?
«I dati si possono aggregare come si vuole, ma anche cercando di metterli nel modo più sereno possibile i numeri ci dicono che le aspettative di chi nasce oggi in Campania sono inferiori di quattro, cinque anni in media rispetto agli altri cittadini italiani che nascono nello stesso momento. Non parliamo in assoluto di tumori, ma di aspettativa di vita, che comprende tutte le malattie, comprese quelle da inquinamento. Noi abbiamo l’aria di mare, non siamo così industrializzati, eppure il cittadino milanese ha più aspettative rispetto al campano; da noi 75, da loro 79 anni. In questo dato sono compresi sia i longevi cittadini di Benevento e Salerno che la massacrata provincia di Caserta, abitata dalla popolazione più giovane d’Italia. L’incidenza dei tumori, che in Italia discende, da noi è in contro tendenza. Qui la maggiore industria è quella casearia e non la metallurgica pesante, ma a leggere i dati è come se avessimo Porto Marghera e non le bufale che fanno la mozzarella. E che sia di una gravità fuori del normale lo dimostrano non tanto i numeri, quanto un evento concreto come l’apertura di una ludoteca all’interno dell’istituto Pascale, per i figli piccoli sani delle donne malate.
«Il Pascale cura i tumori degli adulti e serve soprattutto i cittadini di Napoli e Caserta. Prima di Natale è venuto il cardinale Sepe a inaugurare la ludoteca, con tanto di benedizione. Questo vuol dire che da noi viene un tale numero di persone giovani che abbiamo bisogno di aiutarle con una ludoteca. Questa esigenza non è venuta a nessun altro istituto dei tumori degli adulti in Italia.
In verità mi sono rotto le scatole di passare numeri e cifre, anche se poi a livello istituzionale dovrebbero permettere di fare interventi di prevenzione primaria più efficaci, ben diversi da quelli che si fanno. L’epidemiologia è un numero, ma quello che uno vive è il cappellano del Pascale che esce dal reparto ematologia, che sta a piano terra vicino al bar, e mentre prendiamo il caffè mi dice, sono andato a consolare una ragazza che è appena tornata dal viaggio di nozze… Questo non è normale. Per cui io che ho cinquant’anni, che mi sono laureato a ventidue anni e ho fatto dodici anni di pronto soccorso perché nessuno mi ha raccomandato, che quindi vivo tra le malattie da trent’anni, adesso sto male, non ne voglio più sapere, mi sono rinchiuso nel laboratorio, voglio avere a che fare solo con le provette, non voglio vedere la gente che sta male, ho fatto già il primario, voglio andare a fare formazione, non voglio stare più in ospedale». (luca rossomando / sabina laddaga)
Leave a Reply