La storia dei sommovimenti penitenziari della primavera 2020 deve ancora essere scritta. Le informazioni e i riscontri sulle drammatiche giornate che hanno visto esplodere la conflittualità interna in circa un terzo degli istituti di pena del paese risultano ancora insufficienti per tracciare un bilancio ponderato. La tentazione di offrire chiavi di lettura lineari è forte, visto il momento in cui questi conflitti hanno preso forma, in particolare rispetto ai possibili effetti – percepiti allora nel comparto carcerario – del contagio da Covid-19. Non vi è dubbio che la percezione di insicurezza sviluppata in un contesto chiuso e quindi esposto a meccanismi di diffusione accentuata del virus, abbia giocato un ruolo importante. Chi conosce la realtà del carcere ha inoltre concentrato l’attenzione sulla compressione radicale dei contatti con l’esterno subita dai detenuti per via delle strategie di riduzione del rischio applicate dall’amministrazione penitenziaria durante la “prima ondata”. La sensazione di isolamento abitualmente sofferta da chi si trova in stato di detenzione avrebbe subito una drammatica intensificazione, componendosi con la paura di non veder garantiti standard minimi di sicurezza sanitaria. Non sono mancate interpretazioni degli eventi di matrice complottista e di dubbia tenuta argomentativa, incentrate sull’idea che le organizzazioni criminali di tipo mafioso abbiano assunto un ruolo nel fomentare e dirigere le rivolte.
Al di là delle differenze interpretative, il denominatore comune sembra definirsi intorno alla dimensione puramente distruttiva delle azioni collettive di insubordinazione. Tale canovaccio, che implica il ricorso sistematico alle nozioni di rivolta e violenza, si basa su alcuni elementi fattuali. La labilità (o assenza) di rivendicazioni strutturate da parte dei detenuti, le pratiche di devastazione delle strutture (sfondamenti, incendi, saccheggi), l’assunzione fuori controllo di farmaci prelevati dai reclusi che hanno forzato gli accessi alle infermerie. Quest’ultimo aspetto risulta correlato alla gran parte dei decessi avvenuti (overdose), ma appare del tutto indebito collocarlo al vertice delle motivazioni delle rivolte. Esso probabilmente indica che una componente dei rivoltosi, nell’eccitazione e nella paura del momento, abbia perseguito un obiettivo di alterazione psichica attraverso le sostanze disponibili. Una sorta di fuga dalla situazione che, peraltro, dovrebbe invitare alla riflessione sulle modalità del contenimento carcerario di tanti soggetti con problemi di tossicodipendenza.
La difficoltà nell’individuare un orizzonte politico delle proteste, accentuata dall’inconsistenza delle rivendicazioni, si traduce in tentativi di analisi incentrati sulla disperazione e sulla irrazionalità dei reclusi, quindi sul loro stato di marginali compromessi (“gente che non ha niente da perdere”), sganciati dalla società e da quelle soggettività politiche che potrebbero sostenere le loro istanze. L’elemento di discontinuità con le rivolte penitenziarie del passato – almeno per quanto riguarda l’Italia tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, non certo meno distruttive – sarebbe quindi individuato: è il conflitto destrutturato, bellezza! La strutturazione del conflitto è tuttavia un’operazione intellettuale che rimanda a cornici di senso almeno parzialmente condivise, se non pienamente comprensibili per la pubblica opinione. Questa considerazione, a nostro parere, non implica affatto l’automatico disconoscimento di una dimensione politica dei conflitti emersi. Le forme reattive all’oppressione carceraria sono invece sempre situate in tale dimensione.
La ricostruzione storica alla quale ci stiamo riferendo dovrà rendere conto della molteplicità delle posizioni assunte, gettando una luce sulle forme differenziate delle proteste, ma anche delle tipologie di comunicazione, mediazione e trattativa che hanno caratterizzato il rapporto tra gruppi di detenuti, agenzie del controllo e personale coinvolto in quei delicati avvenimenti. A quel punto, è probabile che la narrativa della pura distruzione – pur presente – perderà di centralità e che elementi di razionalità situata potranno emergere. D’altra parte, appare evidente che le misure deflattive messe in campo dal governo nella stessa primavera 2020, orientate a decongestionare in parte gli ambienti carcerari e a ridurre il pericolo del contagio, abbiano seguito (e non anticipato) l’esplosione del conflitto di cui stiamo trattando.
Gli esiti dei procedimenti penali e disciplinari in corso andranno a integrare le letture delle proteste finora avanzate. In particolare, la speranza è che i riscontri processuali possano illuminare le dinamiche relative al ripristino dell’ordine istituzionale a seguito dei conflitti esplosi; per esempio, in riferimento alla gestione dei trasferimenti dei detenuti che li hanno alimentati e ai possibili atti ritorsivi nei confronti della popolazione reclusa. Questi aspetti andranno poi connessi a un’eventuale gestione più restrittiva della quotidianità carceraria (riduzione della mobilità interna, contrazione del regime a celle aperte, limitazione delle attività ricreative e trattamentali). In particolare, ragioniamo qui sul caso della casa circondariale di Modena, che ha assunto tratti paradigmatici per via dell’intensità dello scontro e dei livelli di devastazione strutturale. A questi tratti si sovrappone la tragica circostanza per la quale, dei quattordici decessi seguiti alle rivolte ben nove abbiano riguardato persone recluse nel carcere modenese. Gli autori di questo contributo hanno visitato questa struttura il 12 ottobre 2020, nell’ambito della ripresa delle attività di monitoraggio dell’Osservatorio Nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione, del quale sono membri.
LA CITTÀ E IL SUO CARCERE
Modena, quindi, come epicentro delle recenti rivolte penitenziarie. La sua provincia è stata epicentro anche del terremoto del 2012, che sollevò il panico nella popolazione (e nella popolazione detenuta) e produsse danni assai rilevanti alle strutture abitative e produttive della zona. Le veloci operazioni della ricostruzione hanno reso conto del dinamismo economico dell’area, ma anche di significativi livelli di compenetrazione tra illegalismi imprenditoriali e criminalità organizzata (nel quadro generale poi emerso nel cosiddetto processo Aemilia). La provincia di Modena, secondo fonti Istat, si colloca al sesto posto nazionale per reddito pro-capite più elevato. Su una popolazione residente di circa 700 mila unità, la Camera di commercio locale ha censito nel 2019 la presenza di 64.611 imprese attive. Per quanto attiene al comparto penitenziario, la provincia ospita la casa circondariale di Modena (area periferica) e la casa di lavoro di Castelfranco Emilia, dopo che per i danni provocati dal sisma del 2012 si è chiusa definitivamente la casa di lavoro di Saliceta San Giuliano. Entrambe si caratterizzano per la sostanziale assenza di opportunità di reinserimento lavorativo dei detenuti in uscita dal carcere e per difficoltà considerevoli nell’attivazione di attività produttive intramurarie che non dipendano dall’amministrazione penitenziaria. Nel corso delle visite degli osservatori di Antigone dell’ultimo decennio, le direzioni che si sono succedute non hanno mai mancato di rimarcare l’indisponibilità del ceto imprenditoriale locale a collaborare col carcere per attivare simili percorsi, nonostante le agevolazioni fiscali garantite. La casa circondariale di Modena (che ospita più di cinquecento detenuti su una capienza regolamentare di 369 unità) ha storicamente presentato livelli molto bassi per le cosiddette attività trattamentali (formazione, sport, percorsi attivati dal volontariato) e per l’accesso al lavoro all’esterno del penitenziario. In sintesi, il rapporto col (ricco) territorio può definirsi debole.
Nonostante la recente edificazione del nuovo padiglione e le attività di manutenzione del vecchio, le condizioni strutturali della prigione modenese sono risultate problematiche negli ultimi anni, con seri problemi di infiltrazioni e malfunzionamenti dell’impiantistica. In un contesto regionale caratterizzato – negli ultimi trent’anni – da un’incidenza proporzionale molto elevata di stranieri sulla popolazione detenuta, la casa circondariale di Modena ha fatto registrare valori sistematicamente vicini al settanta per cento, ospitando una quantità impressionante di imputati e condannati provenienti dai paesi del Maghreb, spesso in condizioni di irregolarità giuridica. Tale specificità, al di là della presenza in provincia di consistenti comunità marocchine e tunisine, è stata motivata con il processo di sostituzione che ha comportato l’impiego massiccio di dealer nordafricani nell’economia locale dello spaccio di strada. In anni recenti, soggetti con caratteristiche simili sarebbero giunti in numero consistente all’istituto in virtù degli sfollamenti ciclici delle più piccole strutture carcerarie romagnole. Simili tendenze sono correlate a meccanismi di distribuzione interna dei detenuti sulla base della provenienza geografica con l’istituzione informale delle cosiddette “sezioni etniche”. La concentrazione di persone prive di agganci con la realtà locale e di una relazione con i servizi sociali e sanitari del territorio se non dell’intero paese rende ancor più problematica la carenza di offerta trattamentale dell’istituto. A ciò si aggiunga l’elevato turnover dei detenuti che implica difficoltà gestionali e spesso determina livelli più elevati di conflittualità interna. Tutti aspetti registrati nella storia recente del carcere modenese e che non possono quindi essere letti come fenomeni emergenziali né rappresentare un alibi a fronte di tali carenze. Negli ultimi anni – e in particolare nei mesi che hanno preceduto la rivolta della primavera 2020 – agli appena menzionati tratti di mobilità si sono aggiunti quelli relativi a cruciali funzioni di coordinamento dello staff penitenziario (direzione, comando di polizia penitenziaria, area giuridico-pedagogica).
PRIMA E DOPO LA RIVOLTA
Nel giorno dell’ultima visita per l’Osservatorio di Antigone (12 ottobre 2020, a sei mesi di distanza dalla “rivolta”) gli autori di questo contributo hanno potuto verificare in parte l’entità dei danni prodotti. È importante precisare che la struttura ospitava in quel momento 180 detenuti circa (a fronte dei 550 del marzo 2020), entrati progressivamente a seguito del ripristino di alcune sezioni detentive, tra le quali quella femminile. Dopo la rivolta, infatti, il carcere risultava del tutto inagibile e i reclusi erano stati trasferiti in massa, al di là della loro effettiva partecipazione alla stessa. Il 12 ottobre il vecchio padiglione era quasi interamente transennato per via dei lavori di restauro. Da una parte del piano terra dello stesso, proprio nei pressi dell’infermeria, si potevano osservare angoli e passaggi di scale completamente anneriti dalle fiamme, mentre erano ancora tangibili alcuni segni di effrazione e danneggiamento degli uffici del personale e della stessa infermeria. «Hanno sfasciato tutto», ci ripetevano i nostri interlocutori dello staff. La dinamica degli eventi ci è stata raccontata sinteticamente dagli stessi operatori. Impossessatisi di un flessibile, alcuni detenuti avrebbero tranciato i cancelli delle celle e di divisione delle sezioni, prendendo il controllo del vecchio padiglione e riuscendo infine a giungere al nuovo, così “liberando” tutti i detenuti maschi, impadronendosi dell’intera area interna dell’istituto e costringendo il personale di polizia a rifugiarsi all’esterno a garanzia del controllo perimetrale. Il nuovo padiglione, completamente ristrutturato e rinforzato con sbarre su tutte le aperture, non era ancora interamente operativo alla data della visita, poiché si attendeva la riparazione di una parte delle serrature delle celle, tutte scardinate nel corso degli eventi.
A partire dall’estensione della rivolta e in considerazione del posizionamento delle parti, la riconquista degli spazi interni da parte delle forze dell’ordine si è rivelata impresa assai difficoltosa. In uno scenario che ci è stato descritto come apocalittico (tra le fiamme e i gas lacrimogeni) e saturo di tensione, l’uso della forza ha raggiunto significativi livelli di violenza. Testimonianze anonime e racconti indiretti sono circolati in questi mesi con riferimento a pestaggi e ritorsioni nei confronti dei detenuti, mentre due esposti affini sono stati depositati in Procura. Se i decessi verificatisi sono stati attribuiti all’assunzione di sostanze, inoltre, legittimi dubbi emergono circa la tempestività dei soccorsi, a fronte dello stato di intossicazione palese (fino alla catatonia) di alcuni reclusi. In questo senso, la morte per overdose “differita” nel corso e perfino a seguito di trasferimenti in altri istituti dovrà essere sottoposta a opportuni e precisi accertamenti. Con indagini e procedimenti in corso, preferiamo mantenere un atteggiamento prudente sulla ricostruzione dei fatti per concentrarci su alcune osservazioni legate alle fasi successive al “ripristino” dell’ordine interno.
Senza entrare nel dettaglio per motivi di riservatezza, i referenti istituzionali che abbiamo incontrato nel corso della visita hanno sostenuto l’ipotesi che a determinare il successo della rivolta e la conseguente devastazione della struttura fosse stata la capacità della criminalità organizzata di “manipolare detenuti disperati che non hanno niente da perdere”. I nostri ripetuti tentativi di ragionare sull’ipotesi che elementi da tenere in considerazione potessero essere il pericolo di contagio da Covid-19 e la compressione di colloqui e contatti con l’esterno correlata alla pandemia sono stati rigettati («tanto quelli i colloqui non li facevano comunque»). Nel rimarcare il «trauma» subito dal personale a fronte delle distruzioni operate dai detenuti – attribuito anche al fatto che gran parte degli agenti non avesse esperienza diretta di simili livelli di conflittualità carceraria – la chiave discorsiva della irrazionalità dei rivoltosi è emersa nella considerazione secondo la quale avrebbero «devastato anche gli ambienti dove si gestiscono le loro pratiche amministrative, dove svolgono la socialità, dove vengono assistiti e curati, dove svolgono attività». A essere rappresentata è dunque una furia fondamentalmente autolesionistica, peraltro suffragata dalla diffusa e imprudentissima ingestione di farmaci anti-astinenziali. La circostanza per la quale la rabbia dei reclusi si sia diretta contro tutti gli spazi carcerari potrebbe comportare anche una riflessione sulla quotidianità detentiva nel suo complesso. La distruzione, infatti, appare legata al desiderio di danneggiare il carcere in sé stesso e in tutte le sue componenti. Un obiettivo che appare irrealistico focalizzare solo sulle celle, auspicando un’improbabile selettività della devastazione e invocando paradossalmente una razionalità della rivolta incentrata sulla valorizzazione delle componenti assistenziali del carcere.
Il legame con la messa in discussione del regime a celle aperte, con un suo «ripensamento» nelle parole degli attori istituzionali con funzioni direttive incontrati nel carcere di Modena, si delinea allora nella prospettiva di una gestione dell’istituto che tenga conto dei significati emersi dalla rivolta per come sono stati elaborati da questi stessi attori. Dei 180 detenuti presenti al 12 ottobre, nessuno era stato coinvolto nella rivolta. Tutti (donne incluse) erano tuttavia sottoposti al regime a celle chiuse, con l’eccezione delle ore d’aria e di quelle dedicate alle attività (significativamente ridotte). Tale opzione gestionale veniva giustificata con le necessità imposte dalla fase di transizione organizzativa (ancora in corso) in vista di una prossima stabilizzazione del numero dei detenuti e della stessa amministrazione ordinaria della prigione. Proprio in riferimento a quest’ultima, i nostri interlocutori sembravano però condividere un assetto strategico di fondo. Il regime a celle aperte avrebbe comportato, negli anni della sua applicazione indiscriminata, un innalzamento della confusione e della conflittualità interna. In prospettiva, quindi, andrebbe destinato in chiave premiale a quei detenuti che, in virtù delle loro motivazioni e della loro buona condotta, si dimostreranno meritevoli di beneficiare di quelle risorse (scarse) che il carcere può garantire. Per gli altri, regime chiuso: in attesa che esprimano autentiche istanze di coinvolgimento nel trattamento. Un modello che prevede quindi il trattamento come un premio e che si caratterizza come una sorta di “rieducazione a ostacoli” dove l’accesso è permesso solo a chi ha dimostrato di attenersi alle, strette, regole disciplinari e dove al primo errore si regredisce al regime a celle chiuse perdendo le opportunità faticosamente conseguite. Il piano del discorso evoca a nostro parere scenari inquietanti e si fonda su presupposti ambigui. Appare certo che la sorveglianza dinamica e lo stesso regime a celle aperte siano stati depotenziati per via delle limitate risorse destinate alle attività dei detenuti. Da qui a sacrificarne le valenze di decongestione e di riduzione dei danni da detenzione, riaffermando come modello maggioritario – con venti ore in cella su ventiquattro – quello delle sezioni detentive, il passo è lungo e incerto. Su un terreno evidentemente scivoloso. (elia de caro / alvise sbraccia – antigone emilia-romagna)