
Le immagini di Rimembra – la mostra fotografica di Monica Biancardi che si è tenuta recentemente al Museo Nitsch – evocano frammenti di corpo, di materia, di vita; le opere – a cui si accompagna un bel catalogo (edito da Damiani) con versi di Michelangelo Buonarroti, un testo del critico ungherese Lorand Hegyi e brani poetici di Gabriele Frasca – non sembrano avere tra loro nulla in comune se non il legame col vissuto dell’artista, con il suo sguardo attento alle zone più inesplorate della nostra coscienza. Di questa mostra, Biancardi ha realizzato anche un video con Gabriele Frasca, che fonde la sua esperienza visiva col suono e la musicalità della voce del poeta che interpreta i suoi versi.
La chiave per comprendere Rimembra è una poesia di Michelangelo che dice della bellezza dell’arte che resiste a “un tempo ingiurioso che tutto dismembra”. Il discorso della fotografa napoletana sulla memoria ha radici lontane. Biancardi è una viaggiatrice inquieta e da sempre i suoi lavori evocano un tempo sepolto insieme a piccole e grandi mutazioni dell’uomo alle soglie del terzo millennio. Indicativi di questa ricerca, dal segno talvolta decisamente antropologico, sono gli scatti di feste popolari e di riti arcaici realizzati in luoghi remotissimi con l’intenzione di scoprire un mondo delle origini non ancora travolto dalla furia autodistruttrice degli uomini. Ora però la sua ricerca tende ad andare oltre l’esperienza fotografica occupando una dinamica area di confine dove segrete percezioni sensoriali si mescolano a linguaggi espressivi diversi.
Di fronte a queste visioni la sensazione di trovarsi di fronte a un evento che nasce da una autentica necessità esistenziale, viene confermata dalla stessa modalità in cui sono presentati i lavori; ridotte in piccolissime dimensioni, le foto sono spesso accostate a piccoli segni, a volti appena accennati nello spazio virtuale della rappresentazione; altre volte invece l’immagine, che si tiene lontana da qualsiasi tentazione estetizzante o spettacolare, è più diretta ed è insieme espressione del rifiuto delle convenzioni e dell’artificio: come in quel magistrale accostamento tra due spettatori colti di spalle, immobili, in attesa che inizi lo spettacolo di fronte a un rosso sipario chiuso, e una donna seduta sullo scalino della sua abitazione che in un semplice vestitino rosso mostra il suo corpo e si sottrae allo sguardo degli altri.
Spesso nel bianco riquadro che contiene le piccole tracce visive compaiono brevi annotazioni a matita. Segnalano solo l’inizio di un nuovo percorso: una sequenza di labirinti mentali che si trasformano in apparizioni inattese, in associazioni inconsce che mettono in relazione l’anima segreta della materia con tutto ciò che resta fuori del nostro sguardo.
Questa drammaturgia per immagini – come Biancardi ama chiamare questo suo intenso racconto fotografico – ha inizio a Procida quando si accorge della bellezza di un tronco d’albero abbandonato dai pescatori. A questa foto dalle sfumature azzurrine del cielo e del mare, l’artista pensò di associarne un’altra che ritrae una donna avvolta in un manto azzurro con il volto abbassato e le mani affondate nei capelli ramati; l’immagine (con cui si apre la mostra e il catalogo) rinvia alla riflessione del critico ungherese, quando afferma che “all’osservatore si rivelano analogie formali tra corpo umano e diverse formazioni della natura, tra dettagli dell’architettura e forme organiche come fiori, piante e animali, tra elementi materiali come aria e acqua”.
Se si osserva tutto il ciclo di Rimembra – dalla nudità di quel corpo femminile disteso che si prolunga nella parte superiore con lievi tratti a matita, all’accensione cromatica (che ricorda la luce di Rembrandt) della donna nuda colta di spalle in tutta la sua prorompente fisicità, sino a quella striscia di terra desertica improvvisamente interrotta, come una lacerazione della carne, da un solco bianco – si può dire che il filo sotterraneo che attraversa tutta l’attuale poetica di Monica Biancardi sia l’indagine sul corpo. Sotto l’incedere del tempo il corpo muta, si trasforma e ci trasforma, e lascia intravedere le cicatrici della storia.
Ed è a partire da questa dimensione della corporeità come rivelazione della nudità del nostro essere, che tutte le immagini dell’artista assumono la liricità di un gesto artistico necessario che ci aiuta a riflettere sull’indecifrabile scorrere della vita e sul nostro ineluttabile divenire altro. (antonio grieco)