Foto di Salvatore Bolognino
Stando a quanto racconta la Bibbia, dopo la morte di Gesù la Madonna visse solo per alcuni anni a Gerusalemme, città che lasciò per recarsi a Efes, nell’attuale Turchia, a causa delle persecuzioni. Ricevuta dall’Arcangelo la notizia della sua prossima morte, rientrò in Terra Santa, dove radunò gli apostoli e li catechizzò prima di morire. Secondo alcune interpretazioni della dottrina, però, la Madonna non sarebbe mai veramente morta, ma caduta in un sonno profondo durante il quale sarebbe stata assunta in cielo. È questa l’origine della differenza tra Assunzione e Dormizione di Maria, festività celebrate rispettivamente il 15 e il 28 agosto dai fedeli cattolici e ortodossi.
Quando arriviamo davanti la baracca di Nino, all’estremità occidentale del campo rom di via Cupa Perillo, la tavola è già imbandita, sebbene alcuni posti siano vuoti in attesa di ospiti che, come in effetti accade, potrebbero presentarsi a gruppetti da un momento all’altro. Intenti a celebrare i rituali, come quello della turnazione del pane intinto nel vino, gli uomini ci invitano a prendere posto e a riempire il bicchiere per il brindisi iniziale, mentre le donne riempiono i piatti. Sono le quattro del pomeriggio, fa molto caldo, e alle nostre spalle una colonna di fumo nero si mantiene pigramente nell’aria. «Era importante andare avanti dopo quello che è successo», spiega Nino. «Questa è una festa molto sentita, chi ne ha voglia e bisogno può sedere con noi, ma ci è sembrato giusto dopo la tragedia di ieri dare un po’ di normalità».
Sono passate poco più di ventiquattro ore dall’incendio che ha colpito il campo di Scampia, bruciando baracche e terreni, automobili e camper, alberi e rifiuti, mettendo in fuga nella giornata di domenica centinaia di persone e lasciandone una trentina senza un posto dove andare a dormire. Della mezza dozzina di baracche andate in fiamme restano gli scheletri in muratura, grigi come il terreno, l’asfalto e il cielo ricoperto da un velo, ancora a distanza di ore. Percorriamo la strada che conduce al campo, guidati dalle colonne di fumo e dalla puzza di bruciato. La parte del campo bruciata è quella iniziale, per cui, una volta finita la salita, la prima cosa che si scorge è una distesa di terra arsa, un albero rinsecchito, la carcassa di un’automobile, cataste di mattoni che dovevano essere stati un muro. L’immagine che racconta a posteriori la violenza delle fiamme fornisce un’idea chiara di quanto la tragedia avrebbe potuto essere maggiore, se il fuoco avesse coinvolto l’intero agglomerato che ospita oltre seicento persone. Solo il caso, un po’ di fortuna, la prontezza nella fuga e quella nel prendere alcune iniziative coraggiose, come l’estrarre all’ultimo istante le bombole di gas dalle abitazioni, hanno evitato conseguenze più gravi. Allo stesso tempo gli abitanti del campo denunciano ritardi nei soccorsi, e di essere stati abbandonati per oltre un’ora, durante la quale hanno dovuto provare a spegnere un incendio di tale portata con bacinelle e secchiate d’acqua.
È domenica, ora di pranzo. Secondo la ricostruzione di Damir, e della maggior parte degli altri testimoni, l’incendio prende il via da un terreno adiacente al campo, sul versante che confina con Mugnano. A originarlo sarebbe stato il fuoco appiccato da un contadino della zona, per fare pulizia di sterpaglie, rovi ed erbacce. A causa del vento, però, l’uomo perde il controllo del fuoco e le fiamme si propagano a gran velocità, raggiungendo il campo. Le baracche cominciano a bruciare, seguite da alcune auto. La gente urla e scappa, Damir si precipita per tirar fuori le bombole. Ci riesce, ma nel frattempo il fuoco raggiunge un’area in cui sono accumulati rifiuti e sterpaglie, sotto le quali ci sono altre bombole, usate, gettate via e mai smaltite. Così cominciano le esplosioni, e il fuoco si diffonde su altre aree, fino a coinvolgere il deposito dell’Asia davanti al campo, dove andranno a fuoco diversi camion. Dopo qualche minuto saltano in aria anche le macchine. La cenere che cade dal cielo, sul terreno secco e arido, accende nuovi focolai distanti decine di metri uno dall’altro: l’incendio è incontrollabile e agli abitanti del campo, tutti, non resta che mettersi in salvo sugli stradoni asfaltati.
Nel frattempo sono cominciate le telefonate alle forze dell’ordine. «I vigili urbani – racconta S. – ci hanno detto che l’incendio l’avevamo fatto noi e non gli riguardava». Pompieri e carabinieri invece prendono in carico le chiamate, ma c’è da aspettare. Così il tempo passa, le fiamme avanzano e non arriva nessuno. Damir, che ha ventidue anni, due figli e una patente europea di informatica, rimane al campo e cerca di organizzare le operazioni. Goran, suo padre, corre in auto alla vicina stazione dei vigili del fuoco a cercare aiuto. Non trova nessuno e ritorna al campo dove, nel frattempo iniziano ad arrivare i primi mezzi dei pompieri. È passata più di un’ora dalla prima chiamata. «Pure nello spegnere l’incendio ci hanno trattato come bestie», continua Damir. «Il campo andava a fuoco, ma i primi cinque o sei mezzi di soccorso li hanno mandati dal lato di Mugnano, dalla terra dov’era divampato l’incendio, mentre uno solo saliva dal lato del campo».
Solo quando l’incendio è ormai di enorme portata, il dispiegamento dei soccorsi sembra proporzionato. Arrivano rinforzi da Napoli centro, persino da Caserta. Le colonne di fumo sono visibili da gran parte della città e la puzza di bruciato è fortissima. I rom hanno tutti abbandonato il campo e si riversano per strada, in piazza, sotto il colonnato, a chiedere aiuto. Sono in centinaia, per molte ore nessuno gli dirà nemmeno dove passare la notte, fino a che, una volta spente le fiamme, la polizia dà il via libera per il rientro nelle baracche: i rom che hanno ancora un tetto possono andare a dormire tra le loro quattro mura bruciacchiate, ma ce ne sono trenta le cui abitazioni sono state distrutte. Le associazioni che lavorano a Cupa Perillo pressano su Comune e Municipalità perché venga garantita loro una sistemazione d’emergenza. Da palazzo San Giacomo esitano, la polizia fa spallucce. «Se non ce lo trovate voi un posto, ce ne andiamo a dormire nella scuola!», fa Damir, mentre gli animi cominciano a scaldarsi.
È sera inoltrata, le famiglie sono in strada da quasi dodici ore quando finalmente arriva l’ok per sistemare le ventisette persone, tra cui dieci bambini, all’interno dell’Auditorium di Scampia. Nel teatro ci si accampa alla buona, con materassi improvvisati buttati per terra, brandine, tavoli e sedie di plastica. Le associazioni del quartiere e le parrocchie danno una mano per i pasti. I bambini saltano inseguendosi da un ambiente all’altro, mentre gli adulti, preoccupati, fumano sul cortiletto in tufo del Comparto 12.
Lo scorso 17 luglio la Procura di Napoli ha effettuato il sequestro preventivo di tre grandi aree del campo di via Cupa Perillo, stabilendo come data ultima per lo sgombero il prossimo 11 settembre e notificando circa duecento ordinanze. Gli abitanti del campo, però, sono molti di più, oltre seicento, e il timore concreto è che, se anche il comune di Napoli dovesse adoperarsi – come finora non ha fatto – per trovargli una sistemazione, baserebbe le proprie stime sui numeri dei magistrati, molto inferiori rispetto a quelli reali. Si tratta di un timore lecito, considerando quanto accaduto già al campo di Gianturco, sgomberato di recente e per i cui abitanti l’amministrazione de Magistris si è preoccupata di trovare una soluzione alternativa soltanto in minima percentuale, lasciando centinaia di persone, compresi anziani e bambini, senza un posto dove andare.
Una volta saputo del prossimo sgombero, i rom di Cupa Perillo hanno costituito un comitato e promosso un censimento, che ha evidenziato tra l’altro l’alto numero di cittadini italiani e quello di minori iscritti e frequentanti le scuole della zona. Il Comune, che per anni non ha fatto nulla per superare l’idea del campo-ghetto, né si è mai adoperato per una sistemazione dei rom in alloggi degni di essere chiamati tali, e che anzi si è rivelato incapace persino di utilizzare i sette milioni di fondi europei stanziati per il progetto Cupa Perillo, oggi pretende di trovare una soluzione in pochi giorni, millantando un intervento entro la fine del mese. In questo contesto anche i consistenti dubbi, che permangono, riguardo la casualità dell’incendio di domenica, assumono una certa importanza, tanto più alla luce dei numerosi precedenti degli ultimi anni, dal pogrom di Ponticelli del 2008 in poi. Così, mentre sindaco e assessori denunciano indignati sulle tv nazionali la possibilità che vi sia stata un’azione dolosa dietro l’incendio di Cupa Perillo, sarebbe opportuno interrogarsi anche sulle conseguenze tragiche delle loro scelte e azioni, e ancor di più delle loro mancate scelte e della loro inazione. (riccardo rosa)
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