Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 16 ottobre 2012.
Un uomo di ventisei anni si è tolto la vita nel carcere di Poggioreale. In questo carcere si era recata, solo tre mesi fa, in visita il ministro della giustizia, Paola Severino che ebbe parole positive per questa struttura e disse, testualmente, che «quello che si trascina il carcere napoletano di Poggioreale è un mito da correggere nell’immaginario collettivo». Eppure questo è un posto che lascia davvero poco spazio all’immaginazione. Per chi non lo sapesse il carcere di Poggioreale è uno dei più affollati di Europa, con circa duemilasettecento presenti (un terzo dei quali tossicodipendenti) rispetto a una capienza di millecinquecento posti.
Questo si traduce in celle che arrivano a ospitare anche quattordici persone, letti a castello impilati per tre, un bagno da dividere in tanti e, per alcuni reparti, una doccia da fare solo due volte a settimana. Malgrado lo sforzo dei pochi operatori penitenziari che ogni giorno lavorano in condizioni impossibili (per dirne una, ogni educatore ha in carico circa duecento detenuti) è difficile anche solo immaginare che il modello detentivo di Poggioreale sia accettabile. La reclusione specie d’estate, si riduce a venti ore di cella, in spazi angusti e limitati. L’ora d’aria non è che un cortile di cemento e una tettoia di lamiera che con il caldo diventano incandescenti. Il taglio delle risorse destinate ai penitenziari ha aggravato una situazione già critica, ridotto il numero dei lavoranti, ogni possibilità di straordinario per il personale, e la riduzione di quelle attività (corsi scolastici, formazione, etc.) che consentono un minimo di apertura. Per non parlare della condizione dei detenuti con problemi psichiatrici, che trascorrono sostanzialmente il loro tempo rinchiusi in isolamento nel reparto di osservazione, cosicché non vi è patologia che non si aggravi.
In questa solitudine, chi è più fragile perde la vita, ma questo è solo il segnale più forte di un disagio diffuso. I detenuti immigrati, per i quali non vi è servizio di mediazione culturale, interpretariato, di fatto senza aiuto di familiari, sopravvivono solo grazie all’aiuto dei loro compagni di cella. La nostra costituzione stabilisce che la pena non debba consistere i trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato, principio rafforzato dalle convenzioni a tutela dei diritti umani. Vorrei ricordare che nell’aprile del 2010, caso senza precedenti, la dottoressa Angelica Di Giovanni, allora presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli, aveva disposto “che la direzione della casa circondariale di Poggioreale si attivi con pronta sollecitudine per eliminare ogni possibile situazione di contrasto con l’articolo ventisette della Costituzione e con l’articolo tre della Convenzione europea dei diritti umani, informandone tempestivamente questo magistrato di sorveglianza”.
È evidente che con le poche risorse a disposizione e in queste condizioni generali di affollamento si può fare poco, ma non è vero che non si possa fare nulla. Servirebbero, innanzitutto, una vera riforma della giustizia che abbrevi i tempi dei processi, garantisca davvero le vittime, riduca l’uso della carcerazione, favorendo il ricorso a pene alternative. E, prima di ogni cosa, bisognerebbe ammettere la gravità dello stato di cose presenti, a Poggioreale come negli altri istituti di pena.
Dire che le cose vanno bene, che non sono poi così gravi, offende innanzitutto chi quella realtà la vive e la subisce. A cominciare dai familiari che all’alba si dispongono in fila per i colloqui, come ha splendidamente raccontato Gaetano di Vaio nel film Il loro natale. Al di là delle parole di circostanza istituzionale che le cerimonie impongono, chi ha ruoli di governo non dovrebbe mai esitare di fronte alla realtà, specie quando in gioco ci sono diritti e persone in carne e ossa. La distanza che oggi si registra tra i cittadini e la “politica” è figlia anche di questo atteggiamento istituzionale che pensa sia sufficiente ignorare i problemi perché problemi non vi siano. Eppure lo spread che misura la distanza tra la sostanza e la forma dei diritti, apparentemente incolmabile per i dannati della terra, andrebbe davvero radicalmente ridotto. (dario stefano dell’aquila)
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