Venerdì 12 ottobre alle ore 17, nella sala Assoli del Teatro Nuovo, Giovanni Laino presenta il suo libro Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale (Franco Angeli, 2012) con Fabrizio Mangoni, Marco Rossi-Doria, Carlo Borgomeo e Marinella Sclavi.
Il tuo libro si apre con una riflessione sulla democrazia e la sua crisi. Quale equilibrio ritieni si possa raggiungere tra le forme classiche della rappresentanza e del governo e le iniziative sociali “dal basso”?
Conviviamo e dovremo, giustamente, convivere in e con diversi modelli di democrazia, senza pensare che quelli che riteniamo più interessanti e innovativi siano sostitutivi di forme di rappresentanza che, certo, vanno sempre profondamente rinnovate. Ho posto al centro della mia riflessione il tema della convivenza (nelle e con le differenze), evitando, però, scorciatoie. Forse emerge che, con molto rispetto per culture e gruppi, “antipatizzo” con un certo approccio progressista conversazionale, semplificante, che disconosce le fatiche di poter dire oggi “noi”. Puntando sulla democrazia associativa, entro un approccio molto pragmatico, teso all’attivazione diretta dei beneficiari, metto in luce, riferendomi a studiose di grande livello, la grave questione dei gruppi sociali che sono in condizioni di subalternità. Per queste persone non basta – e forse è fuorviante – pensare di realizzare iniziative per dare voce, quando bisogna innanzitutto costruire le condizioni per rendere effettivamente esigibili i diritti essenziali. Anche per questo, sulla scia del lavoro che da anni fanno Goffredo Fofi, Gulio Marcon e altri, mi sono riferito al contributo di donne e uomini italiani che negli anni Cinquanta hanno lavorato in cantieri della democrazia sostanziale, esperienze che in Italia hanno subito poi molte limitazioni.
Non c’è anche un certo grado di utopia nel pensare che la convivenza delle differenze possa trovare mediazioni non conflittuali?
Non penso affatto a mediazioni non conflittuali. Come sostiene Giancarlo Paba in casi non remoti, il conflitto può essere uno dei buoni esiti di forme efficaci di partecipazione. Negli anni, chi ha svolto lavoro di quartiere, avendo anche significative relazioni con i responsabili delle politiche pubbliche, ha maturato l’idea che l’efficacia delle iniziative è direttamente associabile a un fortunato mix fra seria apertura, pur limitata e contingente, dei processi da parte dei responsabili delle politiche e fertile mobilitazione dal basso, con attivazione dei beneficiari e interventi qualificati di attori intermedi.
Nel libro prendi in esame esperienze pratiche, ti concentri sulle Regie di Quartiere, i Nidi di Mamma e i Progetti di occupabilità.
Parlo di quello che conosco, per averne condiviso a lungo le realizzazioni. Ci sono diverse altre storie significative e meritevoli di attenzione, anche a Napoli. Pure Napoli Monitor può essere considerata una buona esperienza di protagonismo giovanile che stimola un gruppo di persone a fare, oltre che (e forse prima di) parlare. Le esperienze di cui parlo, criticamente anche se vi sono affezionato, hanno avuto almeno in parte i caratteri delle buone pratiche, ma poi non hanno avuto sempre buone evoluzioni. Soprattutto perché non sono mai state valutate e consolidate, pur in modo selettivo, dai responsabili locali delle politiche pubbliche. Come per altre buone esperienze realizzate a Napoli negli ultimi venti anni, si tratta oggi di farne una considerazione laica pur se appassionata e domandarsi per i prossimi quindici anni cosa sia utile e possibile fare. Non credo sia la direzione che il comune di Napoli sta prendendo. Penso per esempio alla smobilitazione complessiva delle opportunità per l’area dei Quartieri Spagnoli o al tavolo che si sta occupando di Scampia, ma staremo a vedere.
Pensi, alla luce delle esperienze europee, che quello delle regie di quartiere sia un modello valido e replicabile a Napoli?
Le regie di quartiere, come le missioni locali o i centri di prevenzione specializzata, sono uno dei dispositivi di un welfare civile, a basso costo, che in Francia consente però in tanti quartieri difficili una rete di sostegno e cura del legame sociale, una batteria di opportunità per i giovani più deboli (in genere di origine immigrata) che qui sembrano chimere anche per napoletani veraci. Spesso non sono grandi cose. Da un po’ di tempo però, dopo aver partecipato a diverse esperienze di successo, ho maturato la riflessione secondo cui forse intorno ai diamanti c’è e resta sempre il letame. Meglio forse sarebbe lavorare a strutture meno eroiche, ma più durature e sostenibili.
Quale modello di intervento proporresti, allora?
Nel libro alla fine propongo un modello telaio, da adattare e declinare nei diversi quartieri difficili del Sud. Da tempo lo propongo ad alcune fondazioni che però sembra siano interessate a finanziare sempre nuove cose. È interessante, appunto, l’occasione che il comune di Napoli con la Fondazione con il Sud sta avviando a Scampia, a partire da un tavolo di confronto fra le associazioni locali. Temo però che l’esperimento sia molto esposto al rischio di divenire una pratica concertativa ove prevarrà un criterio distributivo più che la definizione di un modello più incisivo e duraturo. Occorre anche una capacità di discernimento e selezione che non mi pare sia nelle intenzioni dell’assessore e nemmeno sia auspicata dalle tante associazioni che hanno il problema di sopravvivere, senza fare tutte cose indispensabili.
Dal tuo duplice punto di vista di studioso e di operatore, quale scenario futuro immagini si dia per il sistema dei servizi e degli interventi sociali per la città?
Forse non sono abbastanza sereno per discutere. Bisogna evitare le trappole della depressione ed essere possibilisti, ma è proprio difficile. All’associazione per cui coopero il comune deve seicentomila euro, la regione trecentomila e non si vede l’uscita dal tunnel. Di fatto siamo sotto scacco con le banche. Gli operatori, quelli rimasti, sono allo stremo. La nostra non è una situazione isolata, tutt’altro! Se a breve non pagano buona parte di questo debito, troveremo solo macerie di cui qualcuno potrà studiare la storia senza però alcun futuro. Uno degli scenari possibili è quello secondo cui si salveranno solo poche organizzazioni, forse più capaci, forse più scaltre. Ho la sensazione che anche il sindaco de Magistris non si sia reso conto che la casa sta bruciando. Se il governo non concede un sostanzioso prestito decennale, anche in funzione di un veloce pagamento dei debiti del comune alle Onlus che hanno lavorato solo a rendiconto, cofinanziando per questo i progetti, la prospettiva è nera per centinaia di giovani lavoratori e migliaia di beneficiari. Poi sarà necessario comunque razionalizzare e ridurre le spese. Probabilmente regione e comune devono darsi una scossa, dicendo la verità sull’importo reale delle risorse disponibili nei prossimi mesi e anni e cooperare seriamente. Credo che si dovrebbero riformulare i piani di zona, assicurando almeno in ogni quartiere veramente in difficoltà (e non ovunque come velleitariamente ci si propone di fare oggi) almeno una “casa dei diritti” ove le risorse siano utilmente investite e socialmente controllabili, superando la frammentazione. Certo ho una visione parziale e sono un agente coinvolto (anche incollerito) fra gli altri. Avverto però un deficit di competenze mobilitate, generose e capaci di una visione per i prossimi anni. Persone con un po’ di fuoco nel cuore e di diavolo in corpo, libere dagli indottrinamenti, non necessariamente legate ai partiti. In questi giorni sto riascoltando spesso gli Osanna: “Ci sarà tempo per attraversare i mari, ci sarà tempo”. (dario stefano dell’aquila)