Che bisogno c’è di scrivere di un tale che sale su un sommergibile diretto al Polo Nord in cerca di qualche impossibile riconciliazione con il popolo, mentre la sua amata con un urlo lacerante si butta dal campanile? Tutto ciò è solo falsità e nella realtà non succede mai. Bisogna scrivere semplicemente di come un certo Pëtr Ivanovič ha sposato Mar’ja Ivànovna. Ecco tutto. (lettera di anton cechov ad aleksandr kuprin, 1860).
Gennaro Volpe, detto il “Pelè bianco”, si accomoda sulla seggiola di plastica di un bar di Montesanto. Con lui c’è il figlio Luigi, che ha visto suo padre giocare migliaia di partite. Eppure è ancora avido di racconti paterni, di tanto in tanto rettifica qualche data o qualche nome e ricostruisce anche la sua infanzia tra i campi di provincia, quando seguiva le prodezze del papà. Gennaro ha una settantina d’anni. All’inizio fa un po’ fatica a riassumere i trascorsi di quasi mezzo secolo nel pallone. Una avventura che comincia con i ragazzini di Forcella: maglia nera con teschio cucito al centro, omaggio alle capuzzelle del sottosuolo e sottile minaccia agli avversari. I ricordi sembrano frenati nel collo taurino da un fascio di muscoli che rivela la ferocia del centravanti. Dopo qualche minuto il racconto di Gennaro esonda, i suoi momenti sono centinaia e li racconta in modo così fulmineo che sul taccuino restano appunti spesso indecifrabili. Dai ragazzini di Forcella fino al torneo Matusa, l’ultimo trofeo vinto a cinquantacinque anni. Due anni prima faceva ancora la differenza in Seconda categoria: «Stavamo giocando a Bacoli, eravamo 0-0 a dieci minuti dalla fine ed ero in panchina. Me ne stavo andando. Mi chiama l’allenatore e mi dice: “Addo’ vaje? Trase!”. Entro, stop di petto, tiro di sinistro nel ferro e vinciamo».
Gennaro lo chiamano il Pelè bianco perché ha segnato più di mille volte. «Zuccate di testa come Tonelli o palombelle come Mertens: gol così sai quanti ne ho fatti?». L’unica opportunità di fare il professionista l’ha scartata: scelse di vivere il pallone come uno sfizio, una passione che porta soldi solo se si è bravi. Lo chiamarono da Foggia, serie A, anni Sessanta. «No, grazie». I suoi gol da allora sono stati la gioia di squadre e tifosi che rappresentano piazze, quartieri e contrade: Borgo Orefici, Chiaia, Loggetta, Frattamaggiore, Caivano, Lacco Ameno, Montecalvario, Montesanto. Con gli Orefici gioca da ragazzo, fa vincere alla squadra il torneo delle professioni, poi va a Chiaia con la Patrizia Living. Il presidente regalava orologi Bulgari dopo ogni vittoria. Agli allenamenti Volpe non c’era quasi mai. Doveva lavorare in fabbrica tutta la settimana per meritarsi i gol che arrivavano puntuali la domenica mattina. Parla Luigi: «Mio nonno era refrattario alla fatica. Per questo mio padre già da piccolo ha dovuto provvedere ai tanti fratelli e sorelle, era il vero uomo di casa». Gennaro ha lavorato una vita intera per la ditta Villa Metalli a piazza Mercato, una fabbrica di alluminio. Villa, il proprietario, era stato anche calciatore del Napoli e la domenica seguiva dagli spalti le partite del suo caporeparto.
In una amichevole al San Paolo tra il Napoli e la Rappresentativa giovanile campana (terminata 14-1), Zoff lo chiama “maschietto” in tono canzonatorio. Gennaro si arrabbia e segna l’unico gol per i suoi. «A centrocampo tenevamo Pasquale Grillo: provò a fare un tunnel a Sivori ma non gli riuscì. Sivori riprese il pallone e glielo fece passare tra le gambe. Poi chiamò Grillo da parte e gli disse: “Non ci provare più, questo l’ho inventato io!”. Di Marzio mi fece: “Sei un bel giocatore ma tien’ ‘na capa ‘e mmerda”! Che tempi…». Tempi in cui la maglia arrivava a pesare cinque chili se pioveva e il pallone era una pietra: «Le cuciture mi scippavano la faccia. Una volta giocammo a Melito sotto il diluvio universale. All’ultimo minuto rigore per noi, stavamo 0-0. Nessuno voleva tirare e ci vado io. Tiro di punta, fortissimo e centrale. Il pallone fa tipo aliscafo: si alza sull’acqua e finisce sotto la traversa. Se tiravo di piatto si sarebbe fermato nelle pozzanghere».
Si giocava per passione, ma «i soldi giravano». Spesso c’erano persone che per incoraggiare Gennaro offrivano ricompense. «In un paese del beneventano c’era questo signore, uno che era emigrato in America e poi era tornato al paese. Parlava come quel personaggio di TotòTruffa, Decio Cavallo, che diceva sempre: “il bisinìss”. Mi disse che per ogni gol che facevo m’avrebbe dato cento dollari. Alla fine me ne portai a casa trecento, ma ne diedi una parte al mio compagno Blanchi». Il nome di Blanchi ricorre spesso nei racconti. Volpe e Blanchi erano grandi amici, il secondo si affidava al primo per qualche soldo extra, gli faceva da impresario. «Una volta a Ischia stavo scherzando con una cameriera. Lui arrivò e le disse: “Signuri’, ma che vulite?”, e così la povera ragazza se ne andò. Teneva paura che il giorno dopo non avrei fatto gol e non avrebbe avuto soldi».
I compagni lo chiamavano Gerd Muller, dagli spalti lo soprannominarono “’o Mpicciuso” oppure “’o Mariuolo”. Poteva essere spregevole verso arbitri e tifoseria, fare gol in baraonda, ma era anche capace di colpi da serie A. «Il direttore del Roma, Sasso, durante una conferenza, mi vide tra il pubblico e mi fece alzare: “Eccolo, Volpe: quello che tirava le pietre agli arbitri!”. Io mi vergognai ma la gente mi applaudiva». Un tifoso zoppo, dopo un suo sbalorditivo gol, urlò dagli spalti: «Tu me fai veni’ ‘e ccosce!».
Con gli anni il pallone si è alleggerito e la società è cambiata. Se oggi a vedere una gara di Seconda categoria vanno trenta persone, trent’anni fa ce n’erano cinquecento. E tra i vari campanili ci si sfidava in campo e fuori. Gennaro ricorda le mazze, un camion che trasportava bottiglie di latte e fu saccheggiato dai tifosi per la rissa, manici di ombrello sotto il cappotto spacciati per pistole, schiaffi e calci, pugni e sputi, testate, fughe e improbabili rifugi. Dopo una partita al Denza di Posillipo, mentre le tifoserie si battevano, Gennaro si ritrovò al ricevimento di un matrimonio cui s’era infiltrato per fuggire. Mangiò a sazietà e con tutta calma, con il completino ancora sporco di fango, facendo anche gli auguri agli sposi. La rissa era scattata proprio per causa sua.
Volpe si emoziona ripescando nella mente i volti delle persone con cui ha condiviso quarant’anni di pallone. «C’era un massaggiatore, quando giocavo nel Montecalvario, che se la passava male. Gli davo dei soldi dopo ogni gol, era un bravo ragazzo». Prima di una gara a Casamicciola, una domenica, Volpe simulò un dolore ai glutei per farsi massaggiare. Il ragazzo lo fece stendere a pancia in giù e cominciò a frizionare le gambe con l’olio canforato, dal basso verso l’alto, finché Gennaro non lasciò partire un peto che lo fece trasalire, scoppiando a ridere.
Trent’anni dopo le prodezze del padre, un giorno, il figlio di Gennaro si ritrova a passeggiare per Caivano. Entra nel circolo della società e osserva le foto. Gli si avvicina un anziano: «Lo so chi cerchi. Eccolo qui, vieni. Tu sei il figlio di Gennaro Volpe!». Chiedono così a Luigi di invitare il padre ai festeggiamenti per il centenario della società. «Quando passammo con la macchina per il centro del paese era acclamato come il Papa». Adesso Gennaro è in pensione, ha un piccolo commercio nel mercato di Antignano. «Qualche mese fa sono venuti a girare una pubblicità della Serie A al mercato. C’erano tutti questi ragazzini che facevano palleggi e capriole. Mi facevano ridere. Testa, spalla, collo, tibia. Allora fermo il pallone e chiamo uno di loro: “Vieni sotto!”. Questo arriva e… tac! Pallone tra le gambe. Solo che gli anni passano per tutti, non ce l’ho fatta a riprenderlo». (davide schiavon)