Sono tornato a Torino un giorno di settembre, dopo mesi trascorsi lontano. Quel pomeriggio camminavo per la città spaesato – ero vicino a Palazzo Nuovo – e d’un tratto ho notato il volto di Lenin apparire in manifesti colorati incollati su spazi pubblicitari. Era di profilo con il mento e il naso appuntiti, un volto essenziale dove spiccavano le linee arcuate dei baffi, delle sopracciglia e degli occhi allungati. In alto era sospeso il logo di Arci Torino e sotto si leggeva: “1917-2017. È un’altra rivoluzione”. Era la nuova campagna del tesseramento: per la prima volta una tessera Arci ha valore sin dal primo settembre – questa è la rivoluzione declamata all’ombra di Lenin.
Durante l’inverno ho incontrato amici che lavorano o hanno lavorato in Arci. I loro racconti hanno risvegliato in me un certo interesse e ho iniziato a prendere appunti, a registrare le voci. Trovavo ci fosse una strana connessione, e poco chiara, tra le loro memorie e quel volto di rivoluzionario orientale. Sono passate le settimane e ho raccolto le storie di altri volontari. Così è nata questa antologia di testimonianze.
In un bar vicino al cinema Massimo ho incontrato Clara, lei lavora in un circolo della città e ogni giorno sta in cucina a preparare l’aperitivo. «Io lavoro a nero. Devi sapere che nei circoli c’è un ambiente familiare. Ho lavorato in altri posti, ma in Arci sei più libero. Puoi arrivare tardi, puoi sederti, rilassarti. Puoi fare tutto questo, perché sei un compagno. Ma dietro a questa condizione c’è anche il ricatto. Io, insieme ad altri colleghi, adesso faccio sala: gestiamo il locale per cinque giorni durante l’aperitivo». Prendono meno di sette euro all’ora, tutto a nero. Quando racconta dimostra rabbia, ma anche un certo affetto per il posto: «Siamo amici dei gestori, abbiamo buoni rapporti. Per me è difficile chiedere i soldi, ti sembra di fare l’elemosina». A volte ci sono discussioni accese sulla retribuzione: «Il locale si regge su di noi. I gestori ti dicono: “Ma come, chiedi più soldi in questo posto, tra di noi?”». Una sera, era un giorno di festa, Clara ha chiesto una paga superiore, come avviene di norma per le festività. I gestori, tuttavia, hanno offerto solo un lieve aumento perché il lavoro è «una forma di militanza». Racconta Clara: «Dicono che questo è un posto sociale, non un locale come gli altri. Io ribatto che non ho reddito, non ho una laurea, a volte faccio gli straordinari senza chiedere soldi: ho diritto di chiedere di più almeno nei festivi. Loro ti fanno capire che ti stanno offrendo un’opportunità, e dunque devi ringraziare senza rompere i coglioni».
Secondo Clara esiste una contraddizione tra la dimensione economica e quella politica di un circolo: «Come può esistere una forma di militanza in un locale? Ci dicono che anche pulire un tavolo è militanza. Lo è, se io ho occupato quel posto con il tavolo da pulire. In un circolo Arci non esiste più possibilità di militanza, sono solo prestazioni lavorative. A volte accade che il salario scende se il circolo ha problemi economici; altre volte, se ci sono serate con i concerti, prendi di più. In quelle sere un cocktail costa sette euro, la gente si sbronza e sbocca a caso. Dove sta la politica in queste serate? I lavoratori accettano per sopravvivere. Tutti accettiamo il nero, la nostra generazione accetta tutto, eh».
Noto che la mia amica è amareggiata quanto me, in fondo parla del suo mondo, le sue sono critiche cariche di sofferenza. «Ti racconto questo. In un altro circolo c’era un festival sul precariato dove si parlava di lavoro, frammentazione di classe, sfruttamento. E poi tu paghi a nero le persone? Nello stesso momento in cui sul palco denunci le condizioni lavorative di una generazione, al bancone spillano le birre a nero. Questa è la contraddizione grossa per cui ti viene da dire: vaffanculo».
Alcuni sono in Arci perché hanno aderito al servizio civile. Sono tenuti a svolgere trenta ore settimanali di servizio e ricevono un rimborso mensile di quattrocento euro. Al caffè del campus universitario ho incontrato Lucia, lei svolge il servizio civile presso un circolo Arci vicino al fiume. «Quest’anno il circolo ha scritto un progetto per avere volontari del servizio civile che si dedichino alle attività con i bambini del quartiere, così ho deciso di fare domanda per dedicare tempo a una cosa cui tenevo. Ho iniziato a settembre, faccio le mie trenta ore e mi occupo del progetto». Le chiedo cosa organizzano di preciso. «Facciamo il doposcuola dalle due alle cinque, sia compiti che attività varie, come i giochi sui diritti civili. Quest’anno abbiamo provato a fare lezioni di musica. Poi facciamo laboratori artistici creando i bigliettini di Natale, puntiamo al riciclo. Con il servizio civile vogliamo ampliare il doposcuola. Ci piacerebbe scrivere un nuovo progetto per avere altri soldi». Il progetto di quest’anno ha ottenuto nove volontari di servizio civile, ma «solo due, tre volontari sono sul progetto, gli altri fanno anche altro. Io sono a tempo pieno solo sul progetto». Le chiedo cosa facciano gli altri. «Aiutano nella programmazione culturale. Aiutano nella logistica». Qualcuno si dedica alla spillatura delle birre? «Sì, una di loro».
Dal dialogo con Lucia intuisco che i fondi statali del servizio civile sono usati per rimborsare alcuni volontari che svolgono mansioni interne al circolo. «Si tratta dell’ordinaria gestione ed è un problema generale del servizio civile. Un conoscente fa servizio civile in Comune e ogni tanto fa le fotocopie, e questo non rientra nel progetto. È lo stesso che stare al banco delle tessere, o fare il caffè. Secondo me l’aiuto nella gestione del circolo ci sta, perché i circoli si reggono sul volontariato». Al tavolo del caffè, nel palazzo di vetro del campus, mi sono domandato quale sia il significato di “volontariato”, quale invece quello di “lavoro”, o di “lavoro sottopagato”. Chi spilla le birre in un circolo e riceve il rimborso spese del servizio civile è un lavoratore o un volontario? «Questa è la realtà di circoli che non hanno i soldi di un bar o di un’azienda o di una attività profit. Tutti agiscono con consapevolezza: fanno volontariato, accettano le regole del servizio civile. Lo sfruttamento è un altra cosa, è quando non sai cosa vai a fare. Finché uno è cosciente e crede nel progetto, va bene. Poi è chiaro che il limite è labile».
Un pomeriggio Davide mi ha accolto nel suo soggiorno in zona Campidoglio. Ci conosciamo da tempo, dagli anni in cui lavoravamo insieme in un circolo Arci. Facevamo i cuochi, io e Davide, e avevamo diritto a tre drink a fine serata. Era la nostra retribuzione. Poi, trascorsi alcuni mesi, ricevevamo venticinque euro a serata, a nero. Ricordo che eravamo consapevoli della nostra condizione, ci consideravamo dei volontari perché aderivamo al progetto politico del circolo. Anche i soldi intascati al tempo della chiusura ci facevano comodo. Il mio amico monda una zucca e io gli confido che la mia ricerca non deve sfociare in un’inchiesta sensazionalistica, piuttosto vorrei scrivere un’indagine introspettiva, scavare nel fondo di contraddizioni che sono anche mie, e che appartengono al mio mondo. «Decenni fa – riflette Davide – i circoli avevano uno scopo sociale, dovevano aggregare: c’erano cineforum e tante attività di quartiere. Poi negli anni Novanta c’è stato uno sfaldamento. Oggi spesso i circoli devono giustificare la propria valenza sociale, ricreativa, perché si sono trasformati in locali».
Anche Davide è stato volontario del servizio civile preso il comitato cittadino di Arci. Secondo lui la contraddizione tra volontariato e lavoro retribuito deve essere letta alla luce della storia dei circoli in città: «Se ti occupi di un circolo, dovresti farlo gratuitamente. In origine si lavorava nel tempo libero per tenere in piedi il circolo. Ancora oggi, da un punto di vista formale, chi svolge delle mansioni in Arci è un volontario. Nel tempo, tuttavia, è avvenuta un’evoluzione: i circoli non sono soltanto spazi di aggregazione, ma locali che devono accumulare incassi. E così il concetto di lavoro cambia, sebbene le forme giuridiche rimangano le stesse. Nulla è netto, tutto mi sembra confuso, come torbido». I circoli sono cambiati insieme a Torino e la loro mutazione s’è adattata alla trasformazione della città industriale: ora abbiamo attorno uno spazio urbano di grandi eventi e spettacoli luminosi. Davide, tuttavia, mi avverte di non semplificare la storia dell’Arci, perché ancora oggi, in alcuni angoli, sussistono circoli che mantengono un legame con le origini: «Ci sono ancora circoli operai, luoghi aperti al quartiere con i tavoli dove bevi un bicchiere e giochi a carte».
Nelle voci registrate noto che un senso di quieta consapevolezza prevale sul malessere. Siamo disposti a calcare la frontiera tra lavoro e volontariato perché crediamo di promuovere una giusta causa. In fondo non ci spinge ancora la folata di un lontano 1917? Con questi pensieri ho raggiunto Monica nella sede di Arci Servizio Civile di Torino, dove svolge da settembre il suo servizio civile. «L’Arci Servizio Civile di Torino (ASC Torino) è un ente accreditato presso il ministero. Tra i nostri soci c’è Arci Torino e quindi vari circoli che si sono associati. ASC consente ai soci di presentare il progetto affinché sia valutato; inoltre offre un servizio di accompagnamento e co-progettazione per gli enti soci che non hanno esperienza». Monica mi parla del suo ruolo: «Seguo la gestione formale dei progetti. Mi piace perché mi permette di conoscere i volontari dei vari enti. Poi siamo coinvolti nelle attività di comunicazione e promozione dell’ente». Monica è soddisfatta della sua esperienza: «Ho sempre frequentato l’associazionismo durante i miei studi, ma dopo la laurea ho lavorato un anno in un’azienda che si occupa di telecomunicazioni. Ho abbandonato quel lavoro che mi assicurava un buon salario per fare il servizio civile qui, perché volevo rientrare nel mondo delle associazioni. Mi attirava questa prospettiva di un anno e mi dava una formazione». Sono colpito quando mi dice che il lavoro, in Arci, è più vicino alla sua «passione».
Secondo Monica la gestione del lavoro in ASC Torino è corretta e mi fa un esempio che la riguarda: «Dopo un paio di mesi si è presentata una novità. C’era una ragazza che collaborava con ASC, svolgeva una collaborazione a lavoro accessorio qui, ma doveva tornare a casa sua, lontano. Dato che io mi sono già occupata di amministrazione, mi hanno chiesto se volevo fare un’integrazione di dieci ore alle trenta normali di servizio civile. Dieci ore regolamentate diversamente, due o tre giorni a settimana. È stata un’attenzione che ho apprezzato, perché so che altrove con il servizio civile potresti svolgere qualsiasi compito senza retribuzione». Dunque queste ore sono retribuite in modo diverso? «Le dieci ore settimanali di lavoro accessorio sono regolamentate a voucher».
Io giro tra le mani la mia tessera Arci del 2017, vedo il passo d’una ballerina e sotto la scritta “Arci. Cultura, Diritti, Partecipazione”. Chiedo a Monica se il pagamento in voucher non sia una contraddizione. «Ho partecipato all’assemblea nazionale di Arci Servizio Civile, è stata un’esperienza coinvolgente, uno dei temi trattati dall’amministratore di ASC è stato proprio questo: a livello normativo è difficile per un ente, magari piccolo, avere delle alternative. Secondo me non è plausibile di punto in bianco assumere dei dipendenti, perché collassi subito. Il voucher da questo punto di vista è un modo comodo per valorizzare anche economicamente qualcuno che lavora per te. Io qui la vivo così, riconosco lo sforzo in questi anni di ASC Torino nel tenere conto di queste spese. Se il voucher me lo fa la Telecom mi incazzo, però se me lo fa l’associazione che non ha altri dipendenti e non è arrivata ad avere un profilo di alto livello, lo accetto. L’importante è che il voucher non sia strumento di una grande azienda volto ad abbassare i costi del lavoro. In questo contesto, il voucher va inteso in una fase di transizione. Se un’associazione cresce può avere quella stabilità che consente altre modalità di retribuzione. Sono sicura che quando ASC Torino avrà una stabilità, farà un passo avanti in questo senso».
Ma dove porta questa «fase di transizione»? E cosa siamo disposti ad accettare ancora in questo nostro presente? Osservo la copertina di un opuscolo recente di Arci Torino. Ci sono due foto: in alto vedo uno sterrato, forse un cortile, dove uomini e donne in bianco e nero siedono su sedie di legno e su panche, un uomo cammina con le mani in tasca e un altro in berretto si tira su la manica della giacca; sotto invece appare l’immagine a colori di una sala lunga con tavoli rotondi gremiti e le persone rivolte verso un palco dove un uomo parla al microfono, dalle vetrate intravedo il verde degli alberi. Una scritta accompagna le immagini: “Siamo nuovi ma siamo quelli di sempre”. (francesco migliaccio)