da: Repubblica Napoli del 7 luglio
Ha destato clamore la vicenda della serigrafia dedicata a Pasolini dall’artista francese Ernest Pignon-Ernest, incollata su un muro di Santa Chiara, al quale una mano ignota ha strappato un paio di lembi a poche ore dalla sua installazione. I giornali hanno fatto titoli sull’opera d’arte vandalizzata e sui presunti significati simbolici del gesto, provocando di certo un sorriso amaro sulle bocche di tanti writers, maestri di un modo di esprimersi effimero per definizione. Dovrebbero essere loro a prendere la parola, per spiegare quel tacito patto che li lega al passante, all’uomo, al bambino di strada, a chi osserva i loro segni sui muri e su quei segni possiede un diritto di vita e di morte quasi istantaneo, la facoltà di disapprovare anche in modi drastici, o solo di correggere, di aggiungere e togliere secondo il suo gusto. Il presupposto dell’arte di strada, infatti, è che ognuno sia libero di aggiungere un paio di baffi alle gioconde che compaiono sui muri della sua via. E l’artista può farci ben poco. Se poi l’opera resiste alle offese degli uomini, sarà il passare del tempo a incaricarsi di farla scomparire.
L’opinione pubblica che da qualche tempo si profonde in amorevoli cure per i “pezzi” – murales, stencil, collage – che compaiono un po’ ovunque sui muri del centro, meglio ancora se griffati da qualche artista internazionale di passaggio, è la stessa che fino all’altro ieri considerava i graffitari il nemico pubblico del decoro cittadino. A cosa è dovuto allora questo radicale capovolgimento di prospettiva? Quello che era un moto anticonformista, ribelle, clandestino e anche un po’ rischioso per chi lo metteva in pratica, con forme spesso oscure, ossessive, anche ottuse in certe ripetitività, negli anni si è come ammorbidito, affiancando alla durezza di approccio e di stile, nuove leve più politiche, desiderose di comunicare, di allargare la cerchia, di far passare il messaggio; e poi, via via – affinandosi le forme, ma con ambizioni sempre meno alte –, l’obiettivo è diventato quello di stupire, di mostrare il pezzo di bravura, diusare le armi della propria arteper provocare meraviglia, per abbellire e migliorare il paesaggio circostante. E così, di gradino in gradino, era inevitabile che si scendesse fino alla commercializzazione pura e semplice, al vuoto di idee, alla pubblicità, alla banalizzazione del gesto sponsorizzata dalla politica.
Abituati a scegliersi le superfici su cui operare introducendosi di soppiatto in un deposito di vagoni abbandonati oppure aggirandosi nottetempo per i vicoli della città, con l’orecchio teso e il corpo pronto alla fuga alla prima avvisaglia di una volante di polizia, in questi ultimi anni gli artisti di strada sono progressivamente emersi alla luce, prima tollerati, infine vezzeggiati: nuovi angeli custodi dell’arredo urbano, ciliegina indispensabile per decorare con un tocco “urban” ogni benintenzionato intervento di riqualificazione; i più noti tra loro hanno raggiunto livelli di notorietà internazionale e capacità di mobilitare interessi che li avvicinano ai guru più affermati dell’arte contemporanea. Gli utenti dei social network condividono estasiati le foto degli ultimi pezzi, la tv ci fa sopra uno speciale, l’assessore di turno gli mette a disposizione muri bianchi e levigati per sfogare tutta la creatività repressa, le multinazionali pagano profumatamente i più affermati tra loro per nobilitare con le sfumature delle bombolette superfici pubblicitarie sempre più estese. L’arte di strada trionfa, l’arte di strada muore. E sulle sue spoglie proliferano naturalmente gli esegeti, che illustrano, spiegano, guidano lo sguardo, postillando anche i segni più insignificanti, appiattendo ogni differenza di metodo e di linguaggio in un’acritica e un po’ ebete ammirazione, per poi andare letteralmente in estasi di fronte all’unico esemplare lasciato in Italia dalla stella più luminosa del firmamento della street art, il misterioso Bansky. Un piccolo poster abbastanza anodino dalle parti di via Tribunali. Ma si sa, come nell’alta moda, anche nell’arte contemporanea la firma è tutto. (luca rossomando)