A quasi sessantaquattro anni, Vasco Rossi è ancora, indiscutibilmente, il miglior performer dal vivo della musica italiana. Il Blasco ieri ha portato a Napoli uno show dal ritmo intenso, quasi forsennato: una trentina di canzoni, due ore e quaranta di musica senza interruzioni, fatta eccezione per sei o sette minuti di buio che hanno lasciato rifiatare il pubblico prima del ritorno sul palco con il medley dei pezzi più rock. Se i concerti del Kom015 non sono paragonabili a quelli degli anni Ottanta o Novanta, Vasco aggira l’ostacolo del tempo che passa scegliendo una scaletta di tutto rispetto, che però gli permette di cantare come e quando vuole, di saltare ora come un forsennato da un lato all’altro del palco, ora di star fermo al microfono mentre la chitarra trascina il pubblico in un coro da sessantamila voci. A fare la differenza è anche la squadra di musicisti-top player di cui si circonda il cantante di Zocca: dal “Gallo” Golinelli a Stef Burns, passando per Vince Pastano e Will Hunt (ex batterista di Evanescence e Black Label Society), fino alla voce della corista Clara Moroni.
Se da trentacinque anni sei ininterrottamente il più grande (forse l’unico vero) cantante rock della canzone italiana, e hai una discografia densa come quella di Vasco, è difficile accontentare tutti, quando sali sul palco. I classici al San Paolo, però, sono tanti: i primi sono Deviazioni, Siamo soli e Credi davvero; poi arriva Stupendo, accolto da una ovazione, e man mano che si va avanti tutti gli imperdibili (Luna per te, C’è chi dice no, Vivere, Gli angeli, Canzone, Sally, fino al trittico finale Vita spericolata-Siamo solo noi-Albachiara). A dispetto di una vita passata a suonare nei palazzetti e negli stadi di tutta Italia, Vasco e i suoi danno l’impressione di divertirsi ancora durante la performance, e svolgono, di volta in volta, qualcosa di molto diverso dal compitino di un concerto dal vivo come lo intendono in tanti. Spettacolare, per scenografia e arrangiamento, è per esempio una versione in chiave iper-rock di Sballi ravvicinati del terzo tipo, che esalta i virtuosismi di Burns e Golinelli. L’adrenalina, così, esplode con una media di ogni quattro o cinque minuti, alle note iniziali di ogni pezzo, raggiungendo picchi non contenibili nei momenti più caldi, tipo l’esecuzione di Rewind, urlata da tutto lo stadio mentre sul palco volavano reggipetto e mutandine lanciate dalle fan del sottopalco.
Durante l’intero concerto, fatta eccezione per una commossa dedica a Pino Daniele, Vasco non dice una parola, se non per ringraziare il pubblico. Lascia parlare le sue canzoni e i suoi musicisti, come forse dovrebbe fare un artista (se è considerato di cattivo gusto parlare di un proprio quadro o di una fotografia, perché dovrebbe essere diverso con la musica?), stringando forse un po’ troppo il medley (Ti immagini, Delusa, Mi piaci, Gioca con me) e toppando veramente solo una volta, quando prima della chiusura la Moroni non rinuncia alla tentazione oleografica di ‘O surdato ‘nnammurato (per fortuna Vasco era già andato via). Un po’ di amaro in bocca resta a qualcuno tra i fan più agées per l’assenza dalla scaletta di alcuni brani cult, ma è una scelta che non incide nel complesso, considerando che tra le canzoni scritte negli ultimi anni dal Blasco, e cantate ieri – a cominciare da Guai e Il blues della chitarra sola (una ballata rock sulla vecchiaia, dal sapore agrodolce, scritta proprio come la scriverebbe Vasco Rossi) – ci sono pezzi che non sfigurano rispetto ai classici.
In sostanza, tornare a vedere Vasco al San Paolo dopo undici anni è uno spettacolo. Le ridicole polemiche innescate sul trattamento del prato in questi giorni dal calcio Napoli (che per pudore farebbe bene a tacere, considerando dieci anni di promesse mancate riguardo interventi strutturali sull’impianto, condite da proposte inaccettabili, senza né capo né coda, sulla costruzione di un nuovo stadio), diventano aria fritta davanti alle vibrazioni potenti di un concerto che ha chiamato a raccolta fan da tutto il paese. Polemiche talmente sterili da rivelarsi uno stimolo, anzi, per aprire un dibattito sul perché uno stadio come quello napoletano sia off-limits anche agli artisti più grandi e che davvero lo meriterebbero, per eventi che mettono in circolo un po’ di soldi veri in città, e che per una volta non finiscono nelle tasche dei proprietari dei grandi alberghi, o nelle sponsorizzazioni di multinazionali e istituti di credito.
Un’altra riflessione, più ampia, andrebbe fatta invece sullo stato dell’arte della musica (non solo rock) italiana, partendo dal vuoto cosmico cantautoriale (se si esclude qualche interessante ma troppo breve exploit di una serie di artisti, soprattutto di nicchia) apertosi dopo la morte di De Andrè, e che oggi è ancora più forte considerando quella di Pino Daniele, o il fatto che gente come Vasco Rossi e Guccini non siano certo giovinetti di primo pelo. Se tutto il bailamme di mani sul pacco dei suoi musicisti, di continui riferimenti sessuali, di gestacci ed espressioni colorite che Vasco, a quasi settant’anni, mette in scena durante i live, non diventa macchietta, è semplicemente perché lo stesso Vasco continua a scrivere poesie e musiche migliori di tutti gli altri, rifugiatisi con sano buon senso sulla tranquilla e poco rischiosa spiaggia musical-buonista stile Liga&Jova, che da quindici anni scrivono sempre le stesse cose, tediando chiunque abbia sviluppate un minimo di attitudini all’ascolto musicale. Allora viva l’asta del microfono in mezzo alle gambe e le mani a rombo, a simboleggiare la fica, di questo vecchio rocker depravato e ossessionato dal sesso. E se dopo tanti anni, ci dovesse ancora essere qualcuno che “la vuole menare con quella vecchia storia sull’educazione”, la risposta può trovarla in una vecchia canzone datata 1980. (riccardo rosa)