
Domenica ho raggiunto il parco Colletta con l’animo agitato da una certa attesa: la vincente fra Africa United ed Egitto avrebbe avuto accesso diretto alla fase finale del torneo. Come in ogni giorno di festa il parco accoglieva le grigliate degli abitanti sgusciati via dalla città. Comunità originarie del Magreb, popoli andini e famiglie provenienti dall’Europa continentale disegnavano sull’erba un arcipelago di aggregazioni improvvisate. Poco vicino ai cancelli del centro sportivo un gruppo di sudamericani s’era riunito allegro sotto gli alberi in una disordinata diffusione di sedie e tavoli di plastica. A fianco alle griglie avvolte dal fumo avevano innalzato un gazebo per proteggere il mixer, gli amplificatori e le casse che liberavano la musica all’intorno. Così la sfida fra gli egiziani e gli abitanti nelle case occupate è stata accompagnata da un sottofondo caraibico persistente, quasi una colonna sonora.
All’inizio della partita il clima era molto sereno fra i nostri panchinari. “Forse – ho pensato – lo spirito di squadra ha prevalso sulle tensioni interne”. «Ho chiesto io all’allenatore Marco di non farmi entrare – ha assicurato Aliou – perché domani mi hanno preso per lavorare. Devo distribuire volantini e oggi non posso certo stancarmi». Ho osservato bene il mio amico senegalese. «Oh, mi hanno detto che è faticoso». Nel frattempo ho sentito Marco borbottare: «In campo ne abbiamo quattro che praticano il Ramadan, nel secondo tempo bisogna pensare bene ai cambi».
Fra i quattro osservanti c’era Yousufa, il centrale di centrocampo con il vezzo di portare i pantaloncini da gioco a cavallo basso. Yousufa ha il dono di decifrare la rete immaginaria disegnata dalla circolazione del pallone e così appare sempre puntuale là dove s’interrompe il gioco degli avversari e inizia il nostro. Sagoma alta dallo sguardo spiritato, devia il moto della sfera con eleganza e velocità, oppure irrompe severo per frantumare le trame avversarie. “Lascia la sensazione di agire nell’attimo che precede il pensiero”, ho annotato con il corpo accartocciato sul taccuino. Così dal suo piede è partito un tiro forte e insidioso che dopo un percorso di venti metri ha toccato l’angolo destro della rete. Salti di gioia intorno a me; il nostro centrocampista ha lanciato un urlo di composta esultanza.
Alla fine del primo tempo ho sentito un boato dalla panchina egiziana e ho notato il loro attaccante correre verso il centro del campo e baciare l’erba. «Hai visto? Era fallo sul nostro difensore. Gol irregolare!», mi ha detto Marco. Mi ero distratto a osservare una grande bandiera della Colombia spostarsi e sventolare dalla parte opposta del campo. Marco è corso via dall’arbitro ed è tornato ancora più indispettito: «Dice che non dobbiamo fare le vittime». Una rabbia mal trattenuta ha coinvolto tutta la panchina dell’Africa United. Un groviglio di voci alle mie spalle: «L’arbitro è algerino? Cazzo! Come si fa a non vedere? No, no. Italiano, italiano mafioso».
Il secondo tempo è iniziato con un tripudio di bel gioco dell’Africa United. «Ascolta – Aliou mi ha puntato il dito contro – devi scrivere di tutte le azioni incredibili e bellissime che abbiamo buttato via». Giuramento solenne con il taccuino in mano. Poi, finalmente, sono arrivati anche due gol di agilità e di rapina di Kartel, nostra punta centrale. Tre a uno. Trascinato dall’entusiasmo ho fatto segno ai giocatori di tenere la squadra corta sul campo, gesto da vero allenatore che nessuno ha notato.
Poi è iniziata la disgregazione caotica a nervi tesi. Il nostro difensore, Kofi, ha temporeggiato durante il calcio da fondo campo e si è beccato un cartellino giallo. «Eeeeeh!», urlo corale dalla panchina e segno stizzito dell’arbitro: «Silenzio!». Così l’Egitto ha segnato il secondo gol su errore di Kofi, ancora scosso dalla polemica. Proprio lui, poco dopo, è stato espulso per una nuova perdita di tempo. «Oh! Arbitro! Ma dove si è vista una cosa del genere?». La partita è divenuta spigolosa. Una scivolata molto dura ha scatenato un’invasione di campo spontanea della panchina dell’Africa United. Espulso il nostro Ibrahim per insubordinazione, occhi dell’arbitro fuori dalle orbite. L’allenatore egiziano: «Calma siamo tutti africani, e in ogni caso dobbiamo stare calmi anche se non siamo africani». E poi all’ultimo secondo è giunto il colpo sordo che gravitava nell’aria: pareggio dell’Egitto su azione intricatissima. Gioia poco distante da noi, abbracci egiziani di fronte al nostro mutismo.
Raccontano alcuni che anche il terzo gol fosse irregolare. Ma l’arbitro ha chiarito di nuovo la sua posizione: «Non fate le vittime!». Frastornato sono uscito dal campo, il nostro capitano mi ha urlato qualcosa in inglese e io ho fatto sì, sì con il capo. Grazie al pareggio per tre a tre l’Egitto ha ottenuto il primo posto nel girone, nonostante fosse a pari punti con noi. «Per differenza reti saremmo noi i primi – ha sentenziato Marco – ma qui conta la “regola della disciplina”: chi ha meno ammoniti ed espulsi è avvantaggiato». Ho dondolato il collo immaginando la posizione dell’Africa United nella classifica del fair play.
Nell’area d’accoglienza ho visto Sarda fra due infermieri. «Un graffio durante la discussione in campo, niente di grave». Dagli spogliatoi è uscito l’arbitro insieme all’allenatore egiziano. Aveva il colletto della polo alzato e brontolava: «Questo non è sport! E no!». Tre donne maliane hanno iniziato a intonare un coro di sostegno per il Mali, con pacato ondeggiare di corpi e lembi lunghi di gonna. Sarda dal suo angolo ha detto: «Comunque vada, abbiamo fatto un gran campionato». A quel punto è comparso Marco e ha annunciato: «Ascoltate. Siamo stati ripescati. Giocheremo gli ottavi di finale contro una testa di serie fortissima». (francesco migliaccio)
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