Quando ho raggiunto il campo la partita fra Libano e Africa United era iniziata da poco. Le panchine si trovavano sul lato opposto e tutti i cancelli erano chiusi. Ho camminato fra l’erba folta per raggiungere il punto in cui le cancellate sfiorano l’area tecnica. In quel momento un difensore dell’Africa United ha accompagnato la palla in rete con un destro morbido e preciso. Autogol, uno a zero per il Libano. «Aliou, Aliou dimmi chi è stato a segnare così lo scrivo». Aliou ha lasciato la panchina e ha guardato il campo con concentrazione: «Il somaliano, è stato lui».
«Hai visto? Io sono di nuovo in panchina e in campo ci stanno veri campioni che fanno le autoreti», ha detto Aliou con un velo d’ironia. In quel momento ho intuito che il clima fra gli esclusi non era dei migliori. Ma sul terreno di gioco il ritmo era molto intenso e l’Africa United attaccava senza remore per recuperare lo svantaggio. Il nostro esterno destro è scattato dopo un lungo lancio dalla difesa, ma il guardalinee ha segnalato il fuorigioco. “Perché – mi sono chiesto – sotto la pettorina del guardalinee spunta la maglia del Libano?”. Aliou ha pensato lo stesso: «Eh! Marco, Marco! Hanno messo un arbitro dei loro». Marco, l’allenatore della selezione, non s’è scomposto. «Tutto sotto controllo, noi abbiamo infiltrato Vitalis come secondo guardalinee». Spesso Vitalis appare nella scuola autogestita nelle palazzine occupate dell’Ex-Moi, si accomoda in fondo e ascolta le discussioni in italiano e i brani di musica che diffondiamo nella piccola aula. Quel pomeriggio, però, era ben concentrato a segnalare le infrazioni libanesi.
Uno dei nostri attaccanti è entrato in area, ha saltato un difensore ed è stato atterrato da una scivolata molto violenta. Rigore e ammonizione. Ho dimenticato la mia funzione di cronista oggettivo e professionale, mi sono aggrappato alle reti e ho urlato insieme alla panchina: «Rosso, rosso!». Era un fallo da ultimo uomo, ma il guardalinee libanese ha rassicurato l’arbitro: «No, no; il giallo è giusto». Marco è entrato in campo di corsa e ha raggiunto l’area per trattare l’espulsione con il signor arbitro. «L’avevo detto che non dovevamo fidarci», ha sentenziato Aliou. Sidi, il centrocampista dai piedi buoni, ha segnato il rigore con un colpo da biliardo sul tappeto verde.
Alla fine del primo tempo si è aperta una porticina e sono sgattaiolato dentro al campo. La mia soddisfazione è durata poco perché mi ha subito raggiunto una ragazza dell’organizzazione. «Ciao», mi ha detto. Ci conosciamo dai tempi del movimento universitario, lei è diventata un’autorevole rappresentante negli organi del gran consiglio nazionale degli studenti. Ho risposto al saluto e ho fatto finta di spiegare ai ragazzi alcuni movimenti senza palla. «Tu non sei un dirigente, devi uscire». Il mio bluff è durato poco. «Una manifestazione che dovrebbe favorire l’aggregazione – ho esclamato – produce barriere e divieti. Come è possibile?». È stata una mossa ingenua perché ho dimenticato di menzionare il mio pass speciale come giornalista di riviste nazionali. «Puoi parlare con i giocatori dopo la partita perché quello è il momento previsto per l’aggregazione», mi ha detto con un sorriso mentre uscivo un po’ stordito. «E in quale partita ufficiale, dimmi, il pubblico può stare a bordo campo?». Così ha serrato la porta dall’interno.
Durante il secondo tempo l’Africa United ha controllato il gioco e il Libano s’è arroccato in difesa. Sotto le nuvole cariche di pioggia la situazione in panchina s’è fatta rovente e tutti borbottavano ansiosi di fare il loro ingresso in campo. «Che sono venuto a fare qui?», – una confusione di voci! – «Eh! Marco, allora!». Così è esploso il caso Moussa. Amareggiato per l’esclusione dalla squadra titolare, Moussa si rifiutava di entrare in campo: «Ora è troppo tardi, non entro». Dopo cinque minuti di trattative si è convinto e ha sostituito Said allo stremo delle forze. Poco dopo Moussa si è lanciato in area con troppa foga, ha mancato il pallone e ha preso in pieno il portiere libanese con un calcio volante maldestro. Baruffa in campo, sospiro sconsolato di Marco. Nella tensione generale ho suggerito: «Ragazzi, liberiamoci dai rancori perché il nostro gol è nell’aria». Ma la partita è finita in pareggio e i giocatori si sono avviati verso gli spogliatoi fra risate e musi lunghi.
Con le mani avvinghiate alle reti siamo rimasti io e Suleyman. Lui viene dal Mali e vive nell’occupazione di via La Salette. «Prima di rovinarmi la caviglia ho giocato nel Cuneo. Il mister mi teneva in panchina, ma guadagnavo bene». Suleyman non gioca, ma ha messo insieme la selezione del Mali coinvolgendo alcuni ragazzi delle occupazioni. «Ho preferito stare fuori dalla squadra, sono in tanti e tutti vogliono giocare». Poi mi ha raccontato della passione di sua madre per Maradona. «Sono cresciuto con l’azzurro davanti agli occhi. Alla prossima partita mettiamo la maglia del Napoli e ci facciamo una foto». Adesso Suleyman corre gli ottocento metri e partecipa alle gare in Piemonte. «Ultimamente ho avuto problemi con la mia organizzazione perché hanno saputo che vivo in una casa occupata, a loro questo non piace». Il campo era deserto, ma dal fondo giungevano i giocatori del Mali e della Nigeria, preludio d’un derby sotto le nuvole. (francesco migliaccio)
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