Il sindacato l’ha venduta come una “historic victory”: il più grande sciopero accademico della storia americana si è concluso il 23 dicembre dopo che una maggioranza consistente (62%) di ricercatori e dottorandi all’Università della California ha ratificato il nuovo contratto. Solo tre dei dieci campus che compongono il prestigioso ateneo si sono opposti: Santa Cruz, Merced e Santa Barbara. Basta saper fare di conto per comprendere l’enorme fregatura rifilata e sgonfiare la retorica sindacale. L’aumento che entrerà in vigore a partire da aprile, del 7.5%, non copre neanche l’inflazione, attualmente all’8%, mentre l’incremento previsto per il 2024 potrebbe rivelarsi ancora più misero se l’inflazione continuerà a crescere.
Escluso dal nuovo contratto il COLA (Cost of Living Adjustment), considerato imprescindibile dalla base, che era stato il cavallo di battaglia dello sciopero non autorizzato di tre anni fa che la pandemia aveva poi sedato. Tra le frange più militanti del movimento la battuta che circola è: “We’ve won a historic pay cut!” (abbiamo conquistato un taglio di stipendio storico). E così, effettivamente, è stato. I nuovi stipendi di ricercatori, dottorandi ma anche quelli degli insegnanti a contratto non sono minimamente adeguati al costo della vita (e degli affitti) dello stato più ricco del paese più ricco al mondo. Una cocente sconfitta insomma, orchestrata alla perfezione da un sindacato strutturalmente piegato alle logiche padronali che in un momento storico in cui la classe lavoratrice americana rialza timidamente la testa si candida al ruolo di pacificatore. Lo United Auto Workers, storico sindacato dei metalmeccanici, di cui fanno parte anche i lavoratori universitari, è una sorta di mega-sindacato che raccoglie monopolisticamente parecchie delle poche categorie sindacalizzabili. Già nel 1970, d’altronde, Paul Schrader ne denunciava la natura corrotta e reazionaria in quel capolavoro del cinema operaista che è Blue Collar, ambientato nell’allora “rossonera” Detroit.
Le leggi anti-sindacali che vigono oggi in America sono da regime totalitario. Negli Stati Uniti infatti il diritto allo sciopero non è riconosciuto neanche ai lavoratori sindacalizzati. Lo sciopero all’Università della California, per poter essere legale, è dovuto cominciare a contratto scaduto. Non solo, il sindacato dev’essere riconosciuto dallo stato per sedersi al tavolo delle trattative. A ogni iniziativa autonoma di base è di fatto preclusa l’agibilità politica. Con buona pace dei democratici e della democrazia. I sindacati in America sono delle mega-corporazioni dedite principalmente al racket delle pensioni e all’accumulo di capitali come descritto molto accuratamente da Scorsese in The Irishman.
Lo sciopero, in un primo momento, è stato all’altezza del crudele Truman Show che è l’università e la società americana più in generale. Assemblee sindacali cronometrate, letteralmente. Non sia mai che tempo prezioso venga sottratto alla produzione accademica. Contenuti politici rigorosamente assenti. L’organizzazione dello sciopero ridotta a una mera questione amministrativa da gestire tramite una serie infinita di gruppi su app di messaggistica. Zoom sembra aver sancito l’irrilevanza dei corpi, persino nelle lotte. A lezione si studiano Gramsci, Foucault e Marx, ma poi si riproducono gli stessi dispositivi di controllo repressivi senza che sorga il minimo dubbio che forse il dissenso dovrebbe prendere forme diverse. Si confonde la comunicazione politica con la pubblicità, e le si chiama con lo stesso nome: advertising. Chi osa far notare queste cose viene guardato come fosse matto. Gli autoctoni, al netto di facili anti-americanismi, sono senza speranze: la coscienza ormai ridotta a un codice a barre. Salvo qualche, piuttosto rara, eccezione.
Noi stranieri osserviamo attoniti dalle retrovie, da un lato sconcertati, dall’altro mossi dal desiderio di esserci. Finalmente un po’ di sana insubordinazione, abbiamo ingenuamente pensato. Poveri illusi. Lo straniero, anche nella politicamente correttissima università americana, non capisce mai un cazzo. Va educato, ammaestrato, assimilato, al massimo protetto. Se di colore può tornare utile come quota marrone. Affinché la distopia sia multiculturale e inclusiva. Mai ascoltarlo. A nessun autoctono è infatti venuto in mente di chiedere ai propri compagni messicani, indiani, europei o mediorientali di come si fanno o come vanno le lotte nei loro paesi. Il sapere non si condivide, è prerogativa esclusiva dello spirito missionario e puritano dell’homo americanus. Tutto ciò che come un mistero si estende fuori dai patri confini è un buco nero di barbara inciviltà, o al massimo un feticcio esotico. Dottorati in studi post-coloniali che non sono serviti evidentemente a nulla. Il deserto di centri commerciali e villette a schiera è un paesaggio prima di tutto interiore.
Finalmente l’agognato sciopero comincia, e la distopia continua. Primo giorno e già superiamo George Orwell da destra. Al picchetto bisogna timbrare il cartellino e scansionare il QR code per certificare la propria presenza. Ci sono i turni anche per lo sciopero. Dottorandi “in rivolta” che muniti di walkie talkie e gilet giallo d’ordinanza, forniti dal sindacato, scoprono lo sbirro che è in loro. Alla vigilia dello sciopero il rappresentante sindacale del nostro campus ci aveva addirittura comunicato che gli unici slogan e cartelli ammessi erano quelli decisi dal sindacato, “sennò l’università può farci causa”. George Orwell ormai non lo vediamo più neanche dallo specchietto retrovisore. Passino il cartellino e il QR code, anche perché senza quelli niente fondo di solidarietà, ma i cartelli no. Allora la sera prima ci si vede con quelli del nostro dipartimento e ne facciamo qualcuno che inneggia all’abolizione del lavoro, un altro che esige caviale gratis in mensa, + soldi – lavoro e via dicendo. Uno lasciato in bianco con scritto in piccolo solo “John Cage’s 4’33” verrà poi fatto sparire dal sindacato. Mi vengono cassati “Gaetano Bresci rettore!” e “Sacco & Vanzetti, vi vendicheremo!”. Vabbè, ci sta.
Cortei, sit-in e qualsiasi altra forma di protesta sono gestiti in maniera verticistica e autoritaria dai rappresentanti sindacali, coi loro gilet catarifrangenti, gli stessi che dopo due settimane di sciopero a oltranza cominceranno a scendere a patti con l’università senza che quest’ultima abbia mostrato la minima volontà di trattare. Durante i cortei che fuoriescono dai confini idillici del campus non si può scendere dal marciapiede, “è illegale marciare per strada” ti spiegano con fare condiscendente gli ormai famigerati yellow-vesters. La proprietà privata, unico aspetto autenticamente sacro della vita americana, non va assolutamente danneggiata. Le scritte sui muri si possono fare solo con i gessetti. Anche quelli, ovviamente, forniti dal sindacato. Se scioperare ti stressa, hai diritto a un turno retribuito di “self-care” a settimana. No vabbè, mo basta!
Dopo due settimane di protesta strettamente sorvegliata comincia a serpeggiare il malcontento. Il gioco, la convivialità e un po’ di sano cazzeggio, attività assolutamente rivoluzionarie in un paese dove non si smette mai di lavorare, hanno sortito l’effetto desiderato e desiderante. La lotta politicizza, sorgono inaspettati nuovi antagonismi e (bi)sogni. Avanguardistici drappelli cominciano a dirottare i cortei e li portano all’interno degli edifici universitari che erano stati designati off-limits dal sindacato. Alle porte non si bussa più, le si usa come tamburi di guerra. Si alzano i toni degli slogan infantili finora scanditi. Non ce lo volete dare? Ce lo prenderemo! Cosa? Tutto! Lo spontaneismo apre un varco nelle strette maglie della rete di sicurezza che il sindacato ha usato per delimitare la protesta. Si improvvisano spedizioni punitive nei confronti dei professori crumiri che hanno minacciato di licenziare i propri assistenti. Qui vedi la gente che sbrocca proprio, che riversa anni di frustrazioni e rospi ingoiati in urla liberatorie. S’incominciano a sentire cori contro la polizia (le università americane hanno le loro forze di polizia, armate fino ai denti, a cui vanno ingenti somme di denaro ogni anno). Salgono le temperature, circolano le energie. Per qualche indimenticabile giorno l’università, l’odiato posto di lavoro, da prigione dell’anima si trasforma in luogo di incontro e pensiero vivo. I campus, che furono costruiti in funzione anti-sommossa dopo le rivolte di Berkley negli anni Sessanta, sono di nuovo teatro di vita indocile, di adunate sediziose.
A Davis dottorandi e ricercatori in sciopero, in uno scontro aperto col sindacato, erigono una barricata per bloccare la circolazione di merci e persone nel loro campus. Al passaggio di una manifestazione universitaria a Oakland, la città dove nacquero le Pantere Nere e dove nel 2011 i portuali scioperarono in solidarietà con Occupy Wall Street, l’edificio amministrativo dell’Università della California viene coperto di scritte vergate in criminale vernice. In diversi campus vengono organizzati espropri presso le mense universitarie: oggi si mangia senza pagare! Calorosa la reazione degli studenti. Il giorno dopo una scritta di fronte alla mensa gli ricorda: “Students, the university is yours!”. Qualcosa comincia a smuoversi, gli studenti, alcuni dei quali avevano chiesto i soldi indietro a fronte delle lezioni perse, si uniscono ai cortei (in numeri sempre risicatissimi, va detto). Le menti alienate e atrofizzate dalla catena di montaggio accademico cominciano a pensare come potrebbero essere le cose e le relazioni se solo non ci si arrendesse a questa realtà infame. Ci si infatua, si fanno nuove amicizie. La notte non si dedica più al sonno, ma all’amore. I complici sono più numerosi di quanto si pensasse, basta non cercarli tra il corpo docente che come un verme striscia all’ombra del padrone (le eccezioni si contano sulle dita di una mano monca). Si riaccendono i corpi, intorpiditi da troppe ore passate su Zoom e piegati da anni di umiliante lavoro accademico malpagato, sempre a capo chino. Lavoro teoricamente intellettuale che al posto di liberarla la mente l’ha asservita alle logiche di mercato che imperano incontestate nelle università. Publish or perish! Pubblica, consuma, crepa. La morte la lasciamo a voi, noi ci riprendiamo la vita.
Al sindacato l’euforia sovversiva risulta ingestibile e quindi accelera le trattative, sempre a porte chiuse, con l’università. Ai lavoratori di Berkley e Los Angeles, i due campus più popolosi, vengono accordati $2.500 in più all’anno così da spostare l’asticella del voto verso il sì. Funzionerà, creando un pericoloso precedente. Le assemblee sindacali ormai hanno lo stesso tasso di partecipazione democratica di un processo farsa di epoca staliniana. L’assemblea per discutere il nuovo contratto viene annunciata via mail alle tre di notte, convocata alle otto del mattino del giorno stesso. George Orwell ci devi dare i diritti d’autore! Avendo dalla loro quasi cinquantamila tesserati nella sola Università della California, una potenza di fuoco comunicativa non indifferente e le maggioranze silenziose sempre dalla loro parte, il sindacato riesce a far passare il nuovo contratto sotto l’albero di Natale. Con a disposizione una sola settimana di contro-campagna elettorale per il “no” si è fatto il possibile, ma non è bastato. Resta adesso da capire cosa si può fare con i semi gettati, se sopravvivranno all’inverno o se invece il gelo disumano di questo tempo devastato e vile li ucciderà. (giovanni vimercati)
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