Torino è la terza città per numero di sfratti in Italia. Sono migliaia ogni anno i provvedimenti di convalida degli sfratti emanati dal Tribunale. Una trentina di ufficiali giudiziari in giro per la città si occupano della procedura esecutiva: bussare alla porta degli alloggi per convincere le persone a uscire “con le buone”, ben sapendo che difficilmente il Comune troverà loro una sistemazione alternativa.
“C’è più ricchezza, ma per un numero minore di persone”, sostiene il rapporto annuale sulla condizione abitativa pubblicato dal comune di Torino. Dal 2009, quando gli effetti della crisi globale sono diventati evidenti, l’instabilità economica delle classi più esposte alla crisi si è tradotta rapidamente in precarietà abitativa. Aumentano infatti tra il 2009 e il 2015 i provvedimenti di convalida degli sfratti, ma quelli effettivamente eseguiti si mantengono sulla soglia di alcune centinaia ogni anno. Poi qualcosa cambia. Nel 2016 gli sfratti eseguiti aumentano del 712,5 % arrivando a toccare in valore assoluto 3.500 sfratti, superando Roma e trasformando Torino nella capitale d’Italia per numero di sfratti: 1 ogni 241 famiglie. Poco meno del 90% di questi sfratti sono giustificati dalla morosità degli inquilini.
I motivi sono diversi e non riguardano soltanto le caratteristiche specifiche di una città post-industriale come Torino, ma sono da ricondurre innanzitutto a una serie di politiche pubbliche per la casa iniziate negli anni Novanta. Nel 1992 il governo Amato inizia lo smantellamento della legge “sull’equo canone” in vigore dal luglio 1978 e che permetteva di stabilire il costo della locazione secondo alcuni parametri fissi decisi dal legislatore. Al suo posto, alcuni anni dopo, sono introdotti i contratti a canone convenzionato e un “fondo per la morosità incolpevole” sopravvissuto fino al 2015. La liberalizzazione del costo degli affitti ha provocato un aumento dei canoni, al 2010, del 110 % nei grandi centri urbani e, al contrario di quanto si aspettavano i fautori nostrani della “mano invisibile” del mercato, ciò non ha comportato un maggiore dinamismo o un’apertura del mercato privato delle locazioni. Il disimpegno statale nelle politiche per la casa ha ridotto i ceti popolari in uno stato di precarietà abitativa che espone migliaia di famiglie al rischio di non poter pagare l’affitto e di ricevere così un avviso di sfratto.
Analizzando i tempi delle procedure di sfratto ci si rende conto che per giungere alla conclusione, allo sfratto eseguito, bisogna aspettare uno o due anni. Nonostante ciò possa costituire una boccata d’ossigeno per gli inquilini in difficoltà, significa anche qualcos’altro: lo stato scarica sui proprietari degli alloggi i costi del mantenimento delle famiglie in emergenza abitativa. Si legge sul rapporto annuale del comune di Torino sulla condizione abitativa che le politiche sociali per la casa sono indirizzate al mantenimento di coloro che avrebbero i requisiti per accedere ai percorsi dell’emergenza abitativa all’interno del mercato privato delle locazioni. Nel 2018, delle 953 domande di emergenza abitativa inviate all’ufficio competente del Comune, la maggior parte riguardavano persone sotto sfratto. Di queste solo il 15 % delle domande sono state accolte. Nello stesso anno sono stati stipulati 163 contratti a canone convenzionato tramite l’immobiliare comunale Lo.Ca.Re. A fronte di una graduatoria per un alloggio popolare che tra il 2012 e il 2017 contava più di 16 mila persone, e una media di 400/500 assegnazioni all’anno, è chiaro che questi risultati non sono sufficienti a soddisfare il bisogno di alloggi fuori mercato.
Durante gli sfratti a cui ho assistito, il conflitto che emerge tra il diritto di proprietà e la funzione sociale che a essa viene riconosciuta è subito risolto dagli ufficiali giudiziari o dalle forze dell’ordine – anche se dipende dalla sensibilità di ciascun funzionario – a favore del primo. Lo stato si deresponsabilizza e incolpa, con una tipica mossa neoliberale, i poveri della loro povertà. In diverse occasioni è capitato di ascoltare agenti affermare: «Noi siamo qua per tutelare la legge, non prendiamo le parti di nessuno. Ma la legge difende loro», indicando i proprietari, «quindi che lo vogliate o no ve ne dovete andare». Sorgono le più interessanti similitudini tra la casa e la macchina, e gli inquilini morosi e i ladri, raffigurando la decisione di resistere allo sfratto in corso come un furto di proprietà, una truffa o un’estorsione. Molto spesso la rappresentazione della morosità, e quindi della povertà, come una colpa si imprime negli sfrattati, incoraggiati a vivere quindi la propria condizione accompagnati da un forte senso di vergogna.
GLI SFRATTI E GLI STRANIERI
Il fenomeno degli sfratti coinvolge una popolazione accomunata da una medesima situazione economica, ma eterogenea per provenienza geografica. Secondo uno studio di qualche anno fa (Cristaldi F., Immigrazione e territorio. Lo spazio con/diviso, Pàtron, Bologna, 2012), la popolazione che vive in affitto è per il 61% di origine straniera. Si può presumere che, anche a causa dell’inclusione subalterna a cui sono soggetti nel mercato del lavoro, gli stranieri immigrati in Italia siano anche i più colpiti dall’esperienza dello sfratto. Per gli immigrati, alcuni dei quali arrivati a Torino anche nelle prime fasi del fenomeno migratorio verso l’Italia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, trovare un alloggio in affitto è sempre stato complicato. Alla difficoltà di sostenere i costi si aggiungono le discriminazioni razziali del mercato immobiliare e quelle che più in generale accompagnano la quotidianità dei migranti dal loro arrivo in Italia. Le difficoltà maggiori nell’accesso alla casa hanno costretto molti di loro ad accettare di spendere più della metà del proprio stipendio nel canone di locazione, a rinchiudersi in minuscole soffitte o a occupare immobili o alloggi abbandonati. Per coloro che hanno trovato un alloggio in affitto, lo sfratto non è altro che l’ennesimo ostacolo o confine da oltrepassare nel lungo percorso verso una precaria stabilità.
Lo sfratto è un momento violento, in cui lo stato si impone d’autorità su coloro che non si arrendono a lasciare l’abitazione. Ho osservato la presenza di diverse forme in cui questa violenza si articola. La prima è senz’altro la violenza materiale: lo sgombero forzato, le manette che risuonano se qualcuno prova a resistere, le camionette delle forze dell’ordine che bloccano la strada e le cariche contro i militanti dei collettivi di lotta per la casa per liberare l’ingresso dell’alloggio da sfrattare. La seconda è una forma di violenza simbolica e narrativa. Le forze dell’ordine o gli ufficiali giudiziari possono minacciare l’eventuale utilizzo della forza anche in presenza di minori, oppure inventarsi garanzie ipotetiche e improbabili benefici ricevuti in caso di rilascio “volontario” dell’alloggio. Secondo il regolamento comunale per l’emergenza abitativa i punti che si ricevono per l’ottenimento di un alloggio di edilizia residenziale pubblica in caso di sfratto eseguito sono cinque. A cui se ne aggiungono altri cinque soltanto se la famiglia è stata presa in carico in una struttura di emergenza a spese del Comune. Durante gli sfratti si ascolta invece di tutto: «Se uscite guardate che vi triplicano i punti per la casa popolare»; «vi danno venti punti se ve ne andate oggi»; «guardate che se rimanete il Comune se ne frega, se invece siete in strada non possono mica lasciarvi così».
La terza forma di violenza non caratterizza lo sfratto in sé, ma lo sfratto permette di rivelarne la presenza. Si tratta di una violenza strutturale che accompagna in modo particolarmente evidente le biografie degli stranieri immigrati in Italia. Riprendendo l’antropologo francese Didier Fassin, intendo quella violenza condotta da una struttura sociale storicamente costituita che interferisce nella completa realizzazione dei soggetti. Essa è più difficile da individuare e da ricondurre a una pratica politica specifica perché si combina di interventi normativi, disuguaglianze economiche, ingiustizie sociali e discriminazioni razziali. Lo sfratto è uno dei risultati di questa violenza diffusa e indefinita, invisibile eppure decisamente concreta che tende a rendere più precarie, anche dal punto di vista abitativo, le vite delle persone. Essere meno stabili significa esporsi più facilmente allo sfruttamento lavorativo o all’adozione di comportamenti devianti facilmente strumentalizzabili in chiave politica. Di questo processo escludente, ma allo stesso tempo includente e disciplinante, raccontano le storie di molti sfrattati. Di Ali, che ha dovuto iniziare a spacciare per smettere di vivere per strada, o di Mustafa, che da vent’anni lavora come straccivendolo al mercato settimanale del Balôn, o di Fatima, badante due giorni a settimana per 400 euro al mese pagati in nero.
GLI SFRATTI E LA CITTÀ
Le storie di queste persone si intrecciano alle vicende di una città che cambia rapidamente. Lo sfratto è la condizione necessaria per poter esprimere a pieno le potenzialità insite nel fenomeno di distruzione creativa che caratterizza alcuni quartieri al centro di interessi speculativi. È uno degli aspetti violenti che accompagna i processi di gentrification. I quartieri investiti da tale rinnovata attenzione da parte dell’amministrazione comunale e di investitori privati sono soprattutto quelli centrali e semicentrali di Aurora e di Barriera di Milano, zone storicamente operaie e popolari di Torino Nord, oltre che d’immigrazione. Non per niente, molti ufficiali giudiziari incontrati affermano che la situazione degli sfratti in questi quartieri è fuori controllo. Sicurezza, criminalità, spaccio e degrado sono alcune immagini frequentemente associate a queste zone; immagini che veicolano una rappresentazione degli spazi urbani simile a quella che caratterizza la frontiera. I torinesi “doc” vi entrano con la stessa dose di curiosità e paura di un esploratore che si addentra in luoghi minacciosi, ma allo stesso tempo misteriosi e attraenti. Con un certo gusto per l’esotico si passeggia tra le bancarelle degli artigiani la domenica del Grand Balôn, o si pranza al mercato centrale ascoltando le grida dei venditori provenire dal mercato all’aperto. Chi se la sente, può spingersi fino a superare la Dora, ammirare la Nuvola Lavazza, visitare il museo, per poi tornarsene a casa. Lentamente, la frontiera si sposta più a nord. Gruppi di “pionieri” della riqualificazione dall’alto, investitori privati e amministrazione comunale, hanno compreso le potenzialità di una porzione di spazio urbano in cui i prezzi degli immobili sono ancora bassi e abbordabili. Maggiore sicurezza offerta ai cittadini e “lotta al degrado” sono le giustificazioni sufficienti per iniziare con le politiche securitarie e gli interventi di riqualificazione. L’unico ostacolo sono le persone che in quei quartieri ci vivono. Alla luce di ciò, l’aumento degli sfratti a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni potrebbe anche essere un segnale della tendenza a estrarre continuamente valore dal territorio urbano, obbligando moltissime persone a muoversi verso zone più periferiche o in alloggi in condizioni peggiori. (giovanni d’ambrosio)
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Quest’articolo è il frutto di una ricerca condotta all’interno della comunità marocchina sotto sfratto di Torino tra aprile e settembre 2019.