Via Giordano Bruno s’allunga diritta verso il Sud di Torino, incastrata fra i binari che raggiungono Porta Nuova e il quartiere di Santa Rita; non lontano da qui si distende Mirafiori e quello che rimane della Fiat. Nell’area che un tempo ospitava i mercati generali è sorto il villaggio olimpico di Torino 2006: una decina di palazzine geometrili dai colori sgargianti, disposte l’una accanto all’altra. Quando i giochi invernali sono terminati quattro palazzine – la cui proprietà si divide fra i privati e la partecipazione comunale – sono rimaste disabitate. I muri scrostati sono i segni tracciati dal ciclo economico che alimenta una città persa nel sogno post-industriale: i grandi eventi e lo spettacolo dell’offerta culturale, poi l’espansione edilizia, poi l’abbandono e il degrado.
Dopo l’esplosione del conflitto libico, nel 2011, il Piemonte ha ospitato circa un migliaio di profughi africani. Per due anni i fondi stanziati per l’Emergenza Nordafrica hanno finanziato le associazioni responsabili dell’accoglienza finché, alla fine del 2012, la Protezione civile ha dichiarato concluso lo stato d’emergenza. Con l’inizio del nuovo anno i rifugiati hanno dovuto abbandonare le strutture di accoglienza, obbligati a vagare senza dimora come corpi estranei mai inseriti nel tessuto sociale e lavorativo. (Come sono stati spesi i soldi dalle associazioni che li hanno ricevuti? Come si è arrivati a una situazione simile? Quale modello di assistenzialismo è stato proposto? Sono domande a cui qualcuno dovrà rispondere, prima o poi). A marzo i cittadini africani – con l’aiuto di alcuni militanti dei centri sociali Askatasuna e Gabrio e di altri attivisti italiani – si sono organizzati in un comitato e hanno occupato le palazzine dismesse del villaggio olimpico. Oggi nei quattro edifici vivono cinque, sei centinaia di africani fuggiti dalla Libia.
In una domenica di metà dicembre ho raggiunto via Giordano Bruno per parlare con Laura, avvocato e attivista nel comitato che ha gestito questi mesi di occupazione. Dopo la sistemazione nel villaggio olimpico gli sforzi si sono concentrati sulla richiesta della residenza. È stato questo il tema della nostra discussione: «Quella per la residenza è una lotta che va avanti dal 2008, quando i profughi dalla Somalia – fuggiti dal conflitto nel loro paese – occuparono una vecchia clinica in Corso Peschiera. Ma i tentativi per ottenerla sono sempre falliti. Poi con l’emergenza libica e l’occupazione qui, in via Giordano Bruno, il problema è tornato alla ribalta: ora sono davvero tanti a richiedere un riconoscimento da parte delle istituzioni». Con la residenza i “titolari di protezione internazionale” possono accedere al sistema sanitario, rinnovare il permesso di soggiorno, cercare un lavoro e, forse, accedere ai servizi sociali offerti dalla città.
In questi mesi ho percepito una certa ambiguità da parte delle istituzioni in merito alla gestione politica dell’emergenza. In nome della legalità l’amministrazione comunale non ha avuto alcuna intenzione di legittimare l’occupazione. Allo stesso tempo, però, il villaggio olimpico ha risolto gravi problemi di ordine pubblico, permettendo a centinaia di persone di disporre di un letto, di quattro pareti. È evidente come per il comune di Torino il mantenimento di un equilibrio precario sia la soluzione più efficace: da una parte non è previsto alcuno sgombero, dall’altra non è concesso alcun riconoscimento agli occupanti; così si contiene l’emergenza senza l’impiego di capitali. In fondo il bilancio di Torino è fra i più dissestati della penisola.
Eravamo seduti sui blocchi di cemento del cortile circondato dalle palazzine. Intorno a noi camminavano alcuni ragazzi e con la coda dell’occhio ho visto i colori dei loro giubbotti, poi la mia attenzione si è spostata sulle parole di Laura: «Abbiamo occupato l’Anagrafe più volte nel corso di questi mesi. E grazie alle pressioni costanti si è avviato un dialogo. Per mesi la trattativa si è concentrata sull’ipotesi di una residenza collettiva, quindi non individuale. Un’associazione avrebbe dovuto porsi come intermediario fra le autorità e gli abitanti e diventare garante di questi ultimi. Ma chi avrebbe costituito l’associazione? Il rischio di riprodurre le contraddizioni già emerse nella gestione dell’emergenza – dove associazioni ad hoc si assumono il compito di gestire la crisi – era elevato. Avevamo ottenuto la possibilità di costituire un’associazione mista di rifugiati e italiani. Ma questo autunno tutto è saltato». Sembra che a novembre Fassino – sindaco e allo stesso tempo presidente dell’ANCI – abbia arrestato il negoziato: prima di assumere qualsiasi decisione intendeva concordare una soluzione nazionale. Il timore, forse, era quello di rompere l’equilibrio dell’ambiguità: anche il minimo riconoscimento avrebbe potuto richiamare a Torino gli altri profughi dispersi per l’Italia.
Il 9 dicembre il comitato, insieme ad altri soggetti impegnati sulle politiche abitative, ha convocato un presidio sotto il Municipio. «Era il secondo in due settimane, ci avevano promesso una soluzione. Abbiamo presentato le istanze di tutte le occupazioni abitative torinesi, anche quelle dei cittadini italiani». Ricordo una serata fredda e surreale, il presidio è iniziato al termine di una giornata riscaldata dalle rivolte e dai blocchi urbani. Nella piazza del Municipio per diverse ore le bandiere italiane dei rivoltosi sono state sventolate, inattese, sopra i volti dei militanti di sinistra e degli africani, mentre le luci elettriche ci illuminavano dall’alto. (Ci siamo guardati, fra tutti, e ancora mi chiedo se qualcuno si è riconosciuto nell’altro, e in che modo). «Durante il presidio abbiamo formato una delegazione – mi ha ricordato Laura durante il nostro dialogo della domenica successiva, nel cortile dell’ex-villaggio olimpico –. Il vicesindaco, Fassino e l’assessore all’anagrafe hanno accettato alcune delle nostre condizioni. Finalmente è stata concessa la residenza. Non sarà collettiva, ma individuale; così non è più necessaria alcuna associazione. L’espediente è quello utilizzato per i “senza fissa dimora”: gli occupanti risiederanno in via della Strada Comunale numero 3, una via inesistente». (È stato quindi raggiunto un accordo nazionale, e questa sarà la soluzione adottata anche nelle altre metropoli? Ancora non posso saperlo). Tutti i rifugiati torinesi potranno disporre dell’assistenza sanitaria completa e potranno ottenere il rinnovo del permesso per il 2014. «Ma per l’accesso agli altri servizi è tutto da vedere. L’amministrazione sostiene che la residenza comporta una spesa pubblica insostenibile per le casse comunali, soprattutto di questi tempi, per questo sono stati così restii a concederla».
Di sicuro il riconoscimento migliorerà le condizioni di vita dei cittadini africani. Eppure mi sembra che il lieto fine sia ancora da scrivere. Penso alla via che non c’è; poi penso alla ex-caserma dei vigili in corso Chieri occupata qualche anno fa da altri rifugiati somali, e di nuovo con l’informale beneplacito delle autorità: un edificio decadente, isolato dal centro, dove la presenza degli africani è meno visibile, meno ingombrante. Vie fittizie, luoghi dimenticati: l’autorità acconsente alla creazione di zone d’ombra nelle quali contenere le situazioni che non è in grado di gestire. Perché, forse, ogni rifugiato è l’emblema della contraddizione irrisolta fra le convenzioni internazionali dei diritti umani e lo smantellamento dello stato sociale. Viene da chiedersi per quanto può ancora durare la via ambigua alla gestione delle crisi politiche e umanitarie, quanto ancora reggerà l’equilibrio precario di un ordinamento sempre più inadeguato. (francesco migliaccio)