Era notte e un’auto blu con i vetri oscurati si è fermata accanto all’albergo antico del quartiere. Un uomo stempiato ha abbandonato il sedile posteriore. «Vuole che l’accompagni?», ha domandato l’autista. L’uomo si è avviato con passo malsicuro verso l’ingresso. La cravatta era allentata. L’auto si è allontanata e dal buio di corso Giulio Cesare è emerso un giovane con la felpa blu e il passo svelto. Si è avvicinato: «Tutto bene? Avete bisogno di qualcosa?». «No grazie, va tutto bene». Il ragazzo è tornato tra le ombre.
A Borgo Dora abbiamo visto nascere bistrot là dove un tempo gli uomini si appartavano con l’eroina. Ogni sabato italiani, rom e africani vendono gli oggetti ritrovati, distendono i banchi poco oltre la strada dei restauratori e dei ricchi antiquari. Alcune occupazioni resistono a pochi metri da appartamenti ristrutturati e venduti a noi nuovi arrivati. I militanti dell’Asilo di via Alessandria affidano ai muri critiche, memorie e appelli, ma la sera auto d’un bianco metallico riflettono le luminarie accanto al locale di moda. Poco più in là un portone conduce al centro di preghiera islamico e le panetterie arabe sono aperte fino alle dieci. Eppure ricordiamo ancora quella sera quando il nuovo circolo LGBT ha promosso il festival cittadino di cinema erotico: peni e vagine erano proiettati accanto al bancone dei drink. Sentiamo ogni giorno il viavai turbolento e vario di donne e uomini perché qui dietro, in piazza della Repubblica, c’è il mercato aperto di Porta Palazzo. Poi abbiamo visto camionette della polizia presidiare l’ingesso della scuola Holden in piazza Borgo Dora: quel pomeriggio il sindaco di Torino ha varcato la soglia dell’antico opificio militare per presentare il programma della campagna elettorale. L’ingresso era riservato agli studenti che ogni anno pagano una retta di diecimila euro.
In fondo a via Borgo Dora, a pochi passi dalla scuola, si trova un vecchio palazzo dai muri scrostati di pallido ocra. Nei quattordici appartamenti abitano famiglie, coppie, uomini soli. Sono tutti marocchini, eccetto la coppia di donne nigeriane del secondo piano. L’edificio è fatiscente: alcuni soffitti sono pericolanti, le infiltrazioni impregnano le pareti. Pochi appartamenti hanno il bagno, i servizi sono esterni e condivisi, per fare la doccia bisogna raggiungere i bagni pubblici. Moustafa è in Italia dagli anni Ottanta e ha una risata che viene dal fondo del petto. Nel 2012, d’accordo con gli altri inquilini, ha denunciato le condizioni del palazzo. L’Asl venne a fare dei rilevamenti e riconobbe i danni strutturali. Giunsero anche i responsabili del comune. «Hanno fatto un preventivo di trecentomila euro per un lavoro di un anno. Il proprietario ha mandato qualche operaio, hanno messo dello stucco qua e là, hanno aperto dei buchi nelle pareti per far passare l’aria in ogni appartamento, ma è stato un lavoro fatto per finta. In una settimana era tutto finito», ci ha raccontato. «Le cose non cambiavano; perché versare l’affitto se la situazione era così? Ho iniziato a non pagare». Anche gli altri inquilini, uno dopo l’altro, hanno smesso di versare l’affitto. «Abbiamo tutti il contratto, io abito qui da nove anni, altri vivono da vent’anni in questo palazzo. Volevamo delle riparazioni degne». Poi il vecchio proprietario è morto e i rapporti con gli eredi sono divenuti più tesi.
Nel 2015 Roberto Manolino, un impresario di Chieri, ha rilevato il palazzo per una cifra di poco inferiore a cinquecentomila euro. Per l’operazione ha creato una società ad hoc – la BorgoDora39 s.r.l. – e ha citato in giudizio gli abitanti per morosità. «Noi abbiamo detto: parliamo, mettiamoci d’accordo, se il palazzo viene ristrutturato siamo disposti a pagare. Ma al proprietario interessa solo avere il palazzo vuoto. Vuole realizzare appartamenti nuovi per gli studenti della scuola Holden».
Il procedimento giudiziario si è frazionato. Otto nuclei familiari non si sono difesi, il loro processo è andato avanti e sono imminenti le prime notifiche di sfratto. Sei famiglie, invece, si sono affidate a un avvocato che ha riscontrato un errore formale nell’accusa, rallentando i tempi dello sfratto. «Ora hanno tre mesi di grazia per saldare la morosità – ci ha raccontato l’avvocato –, se non pagano viene convalidato lo sfratto e si avvia la procedura esecutiva». Secondo la legge le carenze strutturali di un palazzo non giustificano il mancato pagamento: «Il diritto dell’inquilino in caso di inagibilità del palazzo è uno: può andarsene senza l’obbligo di disdetta, niente di più. Il codice civile garantisce solo i diritti di proprietà». L’istituzione pubblica può disporre un provvedimento di urgenza se l’immobile presenta danni strutturali rilevanti. In quel caso il proprietario è obbligato a intervenire: «Di fatto i piani di intervento urgente sono l’esito della contrattazione tra il comune e il locatore. Normalmente il comune delibera la necessità di un intervento urgente solo se esiste un investitore disposto a spendere il necessario per la ristrutturazione. L’urgenza non è impiegata per risolvere un problema abitativo, è una misura per consentire un intervento urbanistico immediato». In seguito al provvedimento d’urgenza può essere necessario sgomberare il palazzo, ma il proprietario non ha alcun obbligo nei confronti degli abitanti. Così in città la politica abitativa è disegnata dall’iniziativa degli investitori privati. «Se il comune dovesse sgomberare gli immobili non a norma, sarebbero coinvolte più della metà delle abitazioni. Allora le istituzioni si limitano ad avvallare i progetti di riqualificazione».
Ma perché il nuovo proprietario non ha concordato con il comune il provvedimento d’urgenza? Un’ipotesi è che il processo per morosità non sia stato avviato per recuperare la quota degli affitti mancati, ma per costringere gli inquilini ad abbandonare la casa. Quanto può valere lo stesso palazzo disabitato, pronto per un intervento di “rigenerazione”? La sola procedura giudiziaria potrebbe fruttare una valorizzazione notevole dell’immobile. L’investitore ha agito in un contesto di difficoltà e insicurezza: i proprietari precedenti erano oberati dai debiti e avevano bisogno di vendere, gli inquilini da anni risentono gli effetti della crisi. Il nuovo proprietario, invece, dispone di capitali e tempo; può permettersi di attendere. Quando l’ultimo inquilino se ne sarà andato, potrà decidere di avviare la ristrutturazione, oppure di affidarla ad altre imprese. Il giorno dello sfratto – qualsiasi saranno le scelte successive – la BorgoDora39 s.r.l. avrà aumentato il capitale di partenza.
Ali ha venticinque anni e lavora per la società che fornisce i servizi idrici alla città. Per saldare la morosità deve corrispondere novecento euro, ovvero la quota d’affitto dalla data d’acquisto dell’immobile – era il maggio del 2015 – a oggi. Il vecchio proprietario non ha intentato alcuna azione legale contro gli abitanti e al momento i debiti precedenti sono dimenticati. «Sono cresciuto in questo palazzo. Vivo in una stanza con mia madre e mia zia; non vogliamo andarcene. Io sono disposto a pagare per rimanere». Sembra che l’avvocato dell’imprenditore abbia sconsigliato di pagare: «Ha detto che è inutile, perché tanto non abbiamo i soldi per pagare gli affitti successivi». Se qualcuno degli abitanti estingue il debito, cade l’accusa di morosità e il proprietario è costretto a seguire vie alternative per ottenere la liberazione del palazzo. Quando abbiamo fatto notare a Moustafa questa possibilità, ha sorriso: «E perché dovrei dargli i soldi? Lui vuole cacciarci. Se non ci riesce con questo processo, chiederà il provvedimento d’urgenza, oppure inizierà la procedura per rescindere il contratto. Se pago, lui usa i miei soldi per sfrattarmi. Preferisco continuare così».
Da tre mesi trascorriamo diverso tempo con gli abitanti. Riflettiamo sui meccanismi che governano questo scenario dove ciascuno – gli abitanti, i proprietari, l’azienda sanitaria locale, i tecnici del comune, la Compagnia di San Paolo, gli esponenti dell’amministrazione – gioca la sua partita e segue una strategia. Ma alcuni hanno a loro disposizione più mosse, e sono più forti. Non esiste un accordo tra i diversi soggetti, né esiste un disegno predefinito: l’esito che osserviamo è la risultante di uno scontro di interessi di varia intensità e direzione. Il palazzo, come il quartiere, è attraversato da un campo di forze in costante movimento. Forse la riqualificazione è un orizzonte dove s’incontra il desiderio di vari soggetti, sebbene non di tutti; forse è il tentativo di portare pace, accesso ai consumi e omologazione in un’area di conflitto.
Accanto al portone s’apre l’ingresso di una trattoria storica di Torino. Da anni i proprietari vivono a contatto con gli abitanti. «Sono marucca che non pagano l’affitto» è il loro commento. Altri negozianti affermano che «sappiamo solo che non pagano, niente di più». Gli stessi abitanti, d’altra parte, non interagiscono con il quartiere: escono di rado, magari per fare la spesa al mercato, non frequentano locali e gli unici rapporti sociali si stringono nel palazzo. Hanno relazioni rare anche con la loro comunità nazionale, al massimo incontrano i parenti che vivono in città. «In moschea si va per pregare, poi ce ne torniamo a casa», dice Moustafa. Avvertiamo mondi che non comunicano, vite che procedono senza entrare in contatto. Tutti camminiamo per la via con i nostri pensieri, carichi di convinzioni seguiamo direzioni abituali. E nella frantumazione che ci circonda e che ci appartiene il territorio diviene fertile alla speculazione. (martina concetti / francesco migliaccio / lorenzo scalchi)