Samuel Paty era un professore di filosofia in una scuola media della banlieue parigina. Un giorno ha deciso di fare una lezione sulle caricature di Charlie Hebdo. Secondo le ricostruzioni disponibili, avrebbe consigliato a chi si potesse sentire offeso da alcuni disegni di lasciare l’aula. Un’alunna avrebbe riportato ai suoi genitori che il consiglio era in realtà un’intimazione (cosa non vera, pare). Il genitore ha poi riscritto l’accaduto in toni scandalistici su Facebook, post ripreso da un predicatore musulmano reazionario, che si è attaccato alla polemica come una patella sullo scoglio, rilanciandone le secrezioni velenose per settimane. Alla fine, il veleno è arrivato a un diciottenne ceceno rifugiato in Francia, Abdullakh Anzorov, che ha aspettato Samuel Paty fuori dalla scuola, lo ha seguito e gli ha tagliato la testa. La vicenda finisce in un anonimo parcheggio di periferia, con i poliziotti che cercano di arrestarlo, il ragazzino che fa finta di estrarre una pistola, l’epilogo è un proiettile nel cranio.
Metto assieme questi fatti uno per uno sul foglio, e per la prima volta mi rendo conto della foresta inestricabile di simboli di cui è costituita questa storia orribile. Le caricature, Charlie Hebdo, la laicité, la figura del prof di filosofia, uno impegnato, che credeva nel suo lavoro, il predicatore che se ne approfitta, un diciottenne disperato che ha avuto un percorso di vita che la maggior parte di noi non può nemmeno concepire. E ovunque, da qualunque parte ti giri, il veleno.
Qualche goccia diventa, in breve tempo, un camion cisterna, poi fiume in piena, alluvione che sommerge una società intera che sta ancora (comprensibilmente) facendo i conti con gli attentati islamisti dal 2015-16 e le centinaia di morti che ne sono seguite. La notizia taglia il fiato, il ciclo spettacolare ti schiaccia. Col veleno alla gola, non puoi pensare. Non puoi parlare.
E proprio mentre annaspi, cercando di tenerti a galla, ecco che saltano definitivamente le dighe. Lo spettacolo ha bisogno di un colpevole e l’imputato è “l’islamismo”, ma si capisce che l’-ismo è solo una foglia di fico. I primi a essere additati sono i membri del CCIF, Collectif contre l’islamophobie en France, rei di avere ricevuto la segnalazione del genitore autore del post su Facebook – segnalazione che il CCIF aveva rispedito al mittente, dopo valutazione, giacché per statuto, l’associazione non interviene in casi che riguardano la libertà d’espressione.
Ancora oggi mi sfugge come sia possibile che un tale collegamento sia stato fatto, ma nei giorni immediatamente successivi all’attentato il ministro degli interni propone la dissoluzione per decreto del CCIF, che magari non saranno i migliori compagni della storia, ma che pure non hanno niente a che fare con questa storia. Tanto più che la dissoluzione per decreto di solito viene usata per le organizzazioni dell’estrema destra o per quelle apertamente terroriste, trattandosi di uno strumento per definizione autoritario, contrario alla libertà associativa: è un’extrema ratio, un’arma nucleare, una di quelle cose che erode la democrazia ogni volta che la usi, quindi bisogna avere delle ottime ragioni per adoperarla.
È in questo momento che mi rendo conto che i salvagente stanno sparendo all’orizzonte. Da anni, la destra francese contesta il termine stesso di islamofobia, considera l’utilizzo del termine “razzismo sistematico” come un’offesa alla memoria nazionale e relega l’antirazzismo a teorie del complotto “importate dagli Stati Uniti”, quindi non sorprende che in quegli ambienti la dissoluzione del CCIF sia accolta con entusiasmo. Tuttavia, mi accorgo allibito che anche la sinistra approva, annuisce, applaude.
I dirigenti del partito comunista francese si dicono subito d’accordo. Mélénchon, leader di France Insoumise, glissa senza condannare né approvare, il partito socialista chiede misure ancora più autoritarie, giacché la République, la laicité, i valori dello stato… Se fosse solo la sinistra istituzionale, non sarei neanche cosí scandalizzato. Ma è attorno a me, nel mio luogo di lavoro, tra le mie conoscenze, che vedo risollevarsi i peggiori spiriti del periodo post-Bataclan, quando si chiedeva ai musulmani di giustificarsi, si gridava allo scandalo se si diceva che Charlie Hebdo è un giornale razzista, si arrestavano alunni delle scuole medie per apologia di terrorismo.
Nell’immediato della polemica sul CCIF, propongo di intervistarli, visto che non lo fa nessuno. È giusto, dal mio punto di vista, che possano spiegarsi. Mi sembra un principio talmente basilare, prettamente giornalistico. In riunione di redazione qualcuno stringe i denti, ma non ci faccio troppo caso. Il giorno dopo accolgo Marwan Mohammad, fondatore del CCIF, giro l’intervista e mi sembra tutto normale. Mohammad racconta di come abbiano rifiutato di intervenire in questa vicenda fin dall’inizio, spiega che il CCIF agisce contro l’islamofobia, espone i mezzi e le pratiche coi quali militano. Gli faccio qualche domanda scomoda sulle ambiguità di un’associazione che cavalca una linea a metà strada tra religione e diritti civili, risponde composto, non ha niente da nascondere, mi sembra.
E poi, apriti cielo.
Il montatore che deve lavorare sull’intervista abbandona, dicendo che non è d’accordo e citando tutta una serie di fake news messe in giro dall’estrema destra; per esempio: due anni fa, durante una grande e inedita manifestazione contro l’islamofobia (il CCIF era tra gli organizzatori), il corteo passò vicino al Bataclan – per puro caso, essendo il Bataclan a due passi da place de la République, una delle grandi piazze del centro di Parigi dalla quale passano spesso le manifestazioni. Mentre litigo col montatore, questi mi ritorce che i suoi amici “che fanno i prof in banlieue” si ricordano dei ragazzini che “non volevano essere” Charlie. Evito di dirgli che manco io sono Charlie, che Charlie Hebdo è un giornale di merda. Mi viene assegnato un altro montatore, sotto sorveglianza della direzione.
Sullo stesso tono, una parte della redazione trova semplicemente scandaloso che “in un momento del genere” si possa dare la parola a questa associazione. Fanno appello al comitato editoriale, che deve decidere in casi del genere, quando una questione è controversa. Alla fine, il comitato editoriale non trova niente da ridire, l’intervista è pubblicata.
Una settimana dopo mi ritrovo preso in un processo politico in riunione di redazione. Un vecchio giornalista, molto vicino a France Insoumise, mi tratta come se fossi un terrorista dicendo che è scandaloso, che ora lui non riesce più a fare le sue interviste (poverino!). Nei giorni successivi, una parte dei colleghi mi obietta che la “linea antirazzista” non porta a niente di buono, che bisogna essere sovranisti, perché il nostro pubblico (di sinistra) quello è.
Il fatto che ci siano persone intorno a me che pensano che essere “antirazzisti” sia potenzialmente incompatibile con la sinistra mi fa riflettere. Dietro alla maschera dei valori universali, di una pretesa “laicità” come valore assoluto, si cela in realtà un razzismo primario contro i discendenti dell’immigrazione araba, che poi in un paese come la Francia significa i figli dei colonizzati. Non è quella forma di ortodossia marxista che pretende che la “questione della classe” (qualunque cosa voglia dire questa espressione) sia l’unica che conti. È una cosa diversa, un sentimento più antico e meno costruito, che in parte viene da lontano (il partito comunista francese ha una lunga storia di sabotaggio delle lotte anticoloniali), ma in parte è il risultato delle ingiunzioni del potere, della vulgata che si afferma nei media.
E ben presto, la vulgata diventa radioattiva. Nel giro di qualche settimana, il dibattito si sposta dal terrorismo all’islamo-gauchisme. È un termine tanto interessante quanto orripilante, e non riesco bene a tradurlo in italiano: “gauchiste” indica una persona di estrema sinistra, e il termine vorrebbe definire quella parte di sinistra che sarebbe compiacente con l’islamismo. Forse in italiano sarebbe “islamo-comunismo”, e ovviamente non vuole dire niente, semplicemente niente, ma indica un vuoto e vi costruisce un mondo intorno, un universo di collegamenti campati in aria senza alcuna prova; insomma, una bella teoria del complotto, non cosi dissimile dalla terra piatta. Con la differenza che la terra piatta, almeno, ha un che di comico.
Forse la traduzione più esatta – anche in termini storici – è “giudeo-bolscevismo”. In effetti, la vulgata dell’islamo-gauchisme riprende con grande precisione quella stessa vena cospirazionista di estrema destra, capace di mettere insieme la violenza razzista e l’odio per la sinistra radicale. È un paragone difficile, ma che rende appieno il pericolo di una deriva del genere. Un cocktail di merda, capace però di fare danni considerevoli.
A spingere (nel senso di pusher) la teoria dell’islamo-gauchisme è soprattutto il governo, per bocca dei ministri, che uno dopo l’altro denunciano i “pericoli” di questa supposta (e inesistente) connivenza. Ma questo è possibile solo perché, a sinistra, ogni giorno viene speso cercando di smarcarsi da quest’accusa. Cosi, da una radio a una televisione a un editoriale, il termine attecchisce, resta lì, produce dibattito a partire dal vuoto – esattamente come una teoria del complotto.
E i danni arrivano, come prevedibile. La ministra della ricerca, Frédérique Vidal, ha annunciato il 16 febbraio scorso una grande inchiesta sull’islamo-gauchisme all’università, colpevole secondo lei di gangrèner (sarebbe il verbo di “cancrena”, che si può tradurre come “corrompere”) la ricerca scientifica. L’obiettivo dell’inchiesta è distinguere tra «ciò che appartiene alla ricerca accademica da ciò che appartiene al militantismo e all’opinione», avendo nel mirino gli studi post-coloniali e antirazzisti.
La tentazione di relegare tutto ciò alla boutade è forte, ma miope. Mentre la ministra delira, il governo tenta di approvare una legge sui “principi repubblicani”, più conosciuta come “legge contro il separatismo”, dove separatismo non è quello dei ricchi che evadono in Lussemburgo, ma quello dei musulmani colpevoli, appunto, di essere musulmani. La legge prevede controlli stretti sull’osservanza da parte delle associazioni dei “valori repubblicani” sanciti dalle prefetture, Daspo per le moschee, l’introduzione del crimine di “separatismo” (qualunque cosa voglia dire, non è ancora chiaro).
La legge è al Senato, ed è stata già approvata dalla Camera. I socialisti e i comunisti si sono astenuti. «Difficile votare contro – ha detto il portavoce dei comunisti a Le Monde –, perché è un testo che dice che bisogna rispettare i principi della République». Per loro, il problema è che c’è “solo” il lato repressivo, ma non è stata prevista alcuna misura “sociale”, nel senso di soldi per i quartieri popolari, perché è ovvio che l’equazione non può che essere terroristi = arabi = musulmani = ghetto.
C’è una sinistra razzista in Francia, che non riesce a vedere il baratro e il veleno, che si aggrappa a questa equazione per ragioni che ancora mi sfuggono, ma le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Una sinistra che non è minoritaria, che forse non è neanche maggioritaria, ma che fa sicuramente schifo. (filippo ortona)