In buona parte della Sicilia la celebrazione della festa di San Giuseppe mantiene in vita una tenace ritualità legata all’equinozio di primavera. Se altrove si allestiscono tavolate, archi di pane e artari ricolmi di cuddure e dolci tradizionali, la vigilia del 19 marzo sulle strade e nelle piazze di Palermo si accendono le cosiddette vampe: grandi fuochi alimentati da vecchi mobili o altro materiale di risulta. Questa pratica è ciò che resta di un rito stagionale millenario, tuttora esistente presso culture molto distanti le une dalle altre e la cui sostanza protostorica risiede nelle cerimonie solari in onore all’equinozio di primavera e alla fine dell’inverno: uno dei tanti momenti annuali che, liberamente vissuti per secoli dalle comunità umane sparse per il pianeta, sono stati conformati a una norma religiosa divenuta dominante. Così, come i giorni successivi al solstizio d’inverno hanno dato origine al Natale, le cerimonie precristiane legate all’avvento della primavera sono state fagocitate dalla chiesa cattolica nel nuovo ordine culturale nato in seguito alla stretta controriformistica; è infatti con la bolla papale Quo primum tempore che nel 1570 è stata istituita la solennità di San Giuseppe. Da allora, questa festa di rinascita ha continuato a essere celebrata per secoli, fino a incontrare le esigenze della modernità.
Anche a Palermo, l’ingresso nella nuova era è stato segnato da un progressivo processo di inurbamento della popolazione rurale, richiamata in città dalla fame di lavoro salariato e dalle promesse di benessere e servizi. Ma se a questa estenuante rincorsa non è sempre seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vita, certo è che il concentramento di gran parte della popolazione nelle città ha di fatto rotto l’intima relazione che legava gli esseri umani alla natura, indebolendo così la loro percezione delle stagioni e del loro susseguirsi: una sensibilità la cui persistenza dipende oggi dalla sua disponibilità alla mercificazione. Tante espressioni del patrimonio culturale palermitano hanno già subìto un processo di conservazione/
DALLA RACCOLTA AL SEQUESTRO
Quelli che precedono la festa di San Giuseppe sono giorni concitati nei quartieri popolari della città, con gruppi di adolescenti e preadolescenti impegnati nel recupero del materiale destinato alla creazione della catasta da ardere: vecchi mobili, scarti vegetali, bancali ormai inutilizzabili, legname di risulta recuperato dai cumuli di spazzatura ampiamente disseminati lungo le strade. Fin qui, la selezione del combustibile sembra porsi in continuità con la tradizione, limitandosi a materiali di scarto quali simboli di un passato che si vuole superare, di un futuro sempre incerto: bruciare il superfluo, in sintonia con la natura. Già durante questa fase è possibile notare gli effetti della criminalizzazione del rito: se diversi anni fa a organizzare la raccolta e gestire l’accatastamento del materiale erano persone adulte a cui questo compito era affidato dalla comunità del quartiere, adesso, proprio a causa della solerte applicazione dell’articolo 703 del codice penale – che pone le vampe alla stregua di qualsiasi altro incendio doloso –, sono i più giovani a portare avanti la tradizione, cambiando se necessario il punto d’innesco per scongiurare l’intervento delle camionette incombenti.
Il giorno della vigilia è il più febbrile: un elicottero sorvola la città fin dal mattino, alla ricerca delle cataste pronte a essere arse: il copione è lo stesso delle ronde aeree durante il lockdown, a caccia dei barbecue improvvisati nei giorni di Pasqua del 2020. Se scoperto, poi, il materiale combustibile è sequestrato dalle forze dell’ordine, creando momenti di tensione con i giovani e le giovani che difendono il duro lavoro dei giorni precedenti. Al materiale sequestrato si sostituisce ciò che resta: perlopiù legname, ma per forza di cose anche spazzatura e infissi prelevati da edifici pubblici fatiscenti o considerati con diffidenza, quando non ostilità. La gioia del rito si affievolisce di colpo, cedendo il passo ad altri sentimenti: la rabbia monta, la festa neanche è cominciata eppure sembra già finita. Il fuoco che prometteva una rinascita primaverile assume adesso il tetro valore di una pira: la condanna a morte è pronunciata ancora una volta, in nome del decoro e della sicurezza.
CREPUSCOLO SULLA CITTÀ
Le pire si elevano nel giro di poche ore, l’ora dell’accensione risponde a esigenze diverse: non sempre è possibile aspettare il crepuscolo, se non si è ben coperti bisogna sbrigarsi ad accendere prima che intervengano le forze dell’ordine, che effettivamente non tardano ad arrivare: camionette della celere, agenti in borghese assoldati per l’occasione, oltre che diversi mezzi dei vigili del fuoco, a voler fare intendere che l’operazione non sia di natura repressiva, ma a garanzia della pubblica sicurezza. Le fiamme in piazza Kalsa illuminano la porta dei Greci e la chiesa di Santa Teresa, gli sguardi attoniti dei turisti e dei nuovi residenti si incrociano con i volti dei picciotti di quartiere coperti dai passamontagna alla luce del crepuscolo. Non hanno più di sedici anni e questa è la loro vampa, la stessa che è stata addumata per secoli dai loro predecessori. Si muovono come adulti e non indietreggiano all’arrivo della celere: intonano cori contro la polizia, erigono barricate coi cassonetti della spazzatura, lanciano uova. Non si urla più Curnutu cu un u rici cu mia / Viva San Giuseppe!, la festa è diventata qualcos’altro e del santo non importa più niente a nessuno.
Altrove volano sassi sui mezzi dei pompieri, cassonetti vengono dati alle fiamme. Sant’Erasmo, Sperone, Brancaccio, Bonagia, Falsomiele, Guadagna, Villaggio Santa Rosalia, Villa Tasca, Borgo Nuovo, Zen, Zen2, Arenella, Zisa, Capo, Ballarò, colonne di fumo si alzano da un capo all’altro della città, un semicerchio di fuoco avvolge il centro storico, assediato in riva al mare. Là dentro, accecati dalle luci rossastre dei lampioni, turisti e nuovi abitanti rimangono cauti: qualcosa sfugge al loro controllo, come se Palermo smettesse di essere “autentica” quando a manifestarsi è la violenza sommersa che la sostiene quotidianamente; poiché agli occhi di chi pretende che tutto risplenda e niente faccia male, non vi è traccia di rinascita in un fuoco che brucia davvero.
Tra i pochi rimasti a osservare quel che resta della tradizione, dopo gli scontri, si possono notare poche e sparute teste della nuova classe creativa di questa città: palermitani di ritorno e nuovi abitanti giunti qui sull’onda lunga della pandemia, che ha fatto scoprire a tante persone quanto la città abbia da offrire, compreso il conflitto scaturito da una tradizione ancora non venduta in pacchetti turistici.
All’alba del 19 marzo le ceneri fumano ancora sull’asfalto sgualcito di piazza Kalsa. Il parcheggio è di nuovo occupato dalle auto e le sfince continuano a essere esposte sui banconi dei bar. Dai profili social dei picciotti rimbalzano le immagini dei cassonetti incendiati, dei sassi che volano, di un’esplosione a Taranto, mentre dai siti d’informazione si amplifica il disgusto borghese nei confronti di questi inattesi reporter, motori di una festa che, proprio per il suo carattere realmente popolare, non appaga un desiderio di consumo, né promette esperienze edificanti: è una festa di morte e rinascita, di liberazione dal vecchio. Pacificatosi nuovamente il conflitto, il centro storico si libera dalla morsa del fuoco e torna a presentarsi come una meta turistica che non concede sconti ai suoi consumatori, i quali hanno assaporato davvero e per un solo momento quell’autenticità di cui si fa un gran parlare, fatta di mercati non più popolari che cercano di estrarre tutto ciò che possono dalle tasche dei nuovi avventori, di un patrimonio culturale che se non può essere venduto rimane chiuso, barricato. Dall’altro lato rimangono, ancora una volta, gli oppressi da educare al decoro, alla sicurezza e all’ambientalismo: la vampa non è codificata, non esiste un pacchetto experience che possa comprenderla ed edulcorarla. Il rito non può essere reso appetibile al mercato turistico perché prevede qualcosa che le nuove città hanno tolto ai loro abitanti, ovvero il tempo libero e di cura della propria comunità, il desiderio di autodeterminazione nei propri spazi.
Dai fuochi del Nowruz alle vampe di San Giuseppe in Sicilia, per millenni l’equinozio di primavera ha costituito un’occasione di rinnovamento individuale e collettivo: un momento di buoni propositi, di liberazione dai pesi accumulati nel corso del tempo passato, di contestazione alle dinamiche autoritarie cui si è sottoposti quotidianamente. È la fame di vita che sveglia gli ultimi sonnolenti dal letargo invernale, lo slancio gioioso che inaugura la primavera e incoraggia all’azione, la rabbia che infiamma le periferie della nostra città. (salvatore laneri / federico prestileo)