L’arredamento della cucina è povero. Divano basso e sdrucito, cucinino, frigo rumoroso, piccolo lavandino per lavare i piatti e i denti, una mensola traboccante di contenitori per le spezie. Al lato, lo spazio comune da cui si entra per una porta al piano terra, superando un gradino di marmo. Quando piove, l’acqua gocciola in casa dalle due aperture ai lati del tetto, qualche volta anche un uccello sbadato ci si infila. Per fortuna a Damasco non piove spesso. In questo periodo però fa freddo, siamo a gennaio. Nella piccola stanza con la porta chiusa c’è una stufetta elettrica che fatica a riscaldare l’ambiente e sulla graticola bolle una teiera d’allumino. Sono a casa di Rasha, un’amica che ospita spesso stranieri di passaggio. E ci vuole un certo coraggio, dal momento che è una donna sola, in un quartiere conservatore, in uno stato fascista.
Rasha è una fonte di informazioni inesauribile, arguta e ironica, con un fondo di malinconia negli occhi. La madre è cristiana, il padre un ateo comunista – come anche lei si definisce – che ha dato alla figlia il nome di Rasha in onore della Russia sovietica. Vie di fuga concesse all’immaginazione, qui in Siria dove all’immaginazione è stata legata una palla al piede.
Altro tè, ennesima sigaretta. Passiamo il pomeriggio così, lei non è mai stanca delle mie domande. «Bashar è un dittatore e la politica in Siria una farsa», mi dice quasi inespressiva. Bashar al-Asad è il presidente siriano, figlio del defunto Hafiz al-Asad, dal 1994 e presumibilmente fino alla morte. «Quando Hafiz morì, fece in modo che la carica di presidente andasse al primo figlio, Basil, che morì lo stesso anno in un incidente d’auto. Il partito al potere è lo stesso da quarant’anni, il Baath, sono alawiti, e Hafiz ha trasformato la presidenza in una carica ereditaria. Bashar a quel tempo studiava oculistica a Londra. Si è ritrovato presidente da un giorno all’altro. Ci sono le elezioni – ride – ma non hanno valore. Nel mio villaggio ci sono stati più votanti del totale della popolazione… Sui giornali scrivono che siamo una democrazia, ci paragonano agli Stati Uniti dove hanno due partiti, qui invece ne abbiamo sette, ci sono anche due partiti comunisti…». Gli occhi di Rasha fissano il cucchiaino.
Il culto del presidente Bashar è pervasivo, basta fare una passeggiata per accorgersene. La sua foto campeggia in ogni luogo, in tutte le dimensioni, negli uffici e nei negozi. Col braccio teso, mentre beve il tè, con gli occhiali da sole e la divisa militare. Ha un volto banale, grigio, l’espressione ebete sembra confermare che anche lui deve sentirsi fuori posto. Eppure è venerato, almeno in pubblico, e criticandolo apertamente si corrono dei rischi. Una volta ho chiesto a un ragazzo nel suq cosa pensasse di Bashar e lui ha sorriso entusiasta facendomi segno con il pollice in alto. Allora ho insistito chiedendogli quale fosse la differenza tra l’attuale presidente e il padre. Mostrandomi il pugno chiuso mi ha detto: «Questo era Hafiz – poi aprendo la mano come per dare –, questo è Bashar», continuando a sorridere. Lo racconto a Rasha: «Certo, la gente pensa che poiché ha donato case ai poveri Bashar sia più buono, lo vedono come un leader quasi religioso, al di sopra dell’errore. I pilastri del suo potere sono una massa rinchiusa nella gabbia mentale della religione e la paura nei confronti degli occidentali e di Israele. Noi siamo in guerra con Israele dal 1948: ci sono ancora la legge marziale e i poteri straordinari per il presidente». La società civile, questo miraggio nel deserto siriano, dov’è? «Fatica a sopravvivere, le gente fa tre lavori perché i prezzi sono alti e le paghe misere, non ha tempo per la politica. Manifestare? Serve l’autorizzazione governativa. Di solito permettono manifestazioni critiche solo per far convergere tutti in una piazza e arrestarli. Il governo organizza cortei di supporto per i palestinesi, gli iracheni, i somali, ma per noi siriani non manifestiamo mai. È di questo che avremmo davvero bisogno».
In Siria, la sessualità e la condotta individuale sono soggette al controllo della morale religiosa patriarcale, un insieme di permessi e divieti che si strutturano in regole coercitive il cui fondamento si suppone sacro. È come un cerchio chiuso: l’interpretazione religiosa e l’uso strumentale che ne fa il potere. La verità è tutta nell’interpretazione che si dà del Testo. Non è necessario andare oltre, la perfezione è stata raggiunta nelle origini e non si deve far altro che imitarla. L’identità diventa succube della memoria, un suo riflesso, e gli strumenti che offre per la comprensione del reale sono miseri e granitici. Religione, politica, tradizione, si fondono fino a diventare limiti a una visione aperta al cambiamento. È questo che Rasha vede come il problema attuale degli arabi, cristiani e musulmani. «Certi argomenti non si mettono in discussione apertamente. Non ho nessuna amica con cui parlare liberamente del sesso, per loro è un affare di famiglia non un’esperienza individuale. Certe volte penso che hanno paura di ribellarsi, altre volte che si adattano, che iniziano a immaginare la loro vita all’interno di questa visione, e ne diventano partecipi, pronte a riprodurla…». Il dubbio contraddistingue questa ragazza, e la tensione alla ricerca. «I libri migliori che ho letto me li sono trovati da sola. All’università l’insegnamento si basa sulla memorizzazione, non c’è critica né opinioni, bisogna bersi tutto. Gli studenti più appassionati se ne vanno, se trovano borse di studio. Qui le loro potenzialità sono umiliate».
Rasha conosce bene la cultura europea: libri, cinema, musica, idee. Attraverso l’inglese e l’arabo può attingere alla produzione culturale di questi due mondi con disinvoltura. Paradossalmente ha una visione più ampia di uno studente europeo che si limita alla produzione occidentale, anche se lei vive nell’afasia culturale siriana. «Quanti ne ho visti di viaggiatori che venivano in Siria a cercare l’oriente, le tradizioni… La colpa è anche loro. E dei loro governi. Non sono interessati allo stato di minorità del popolo siriano. Per l’occidente siamo un mercato, ci offre le sue invenzioni e ce le fa sembrare indispensabili, ma non ci aiuta a possedere il cervello che le ha inventate. Siamo strumenti, o nemici su cui lanciare bombe».
Alla radio stanno passando Fairouz, cantante libanese, un mito in tutto il mondo arabo. Rasha canticchia con gli occhi socchiusi, mentre scalda una fetta di pane sottile sulla stufetta. Ci guardiamo. Sappiamo entrambi che fuori da questa porta molti dei nostri discorsi sono impensabili. Mi viene in mente una poesia scritta da Mohamad al-Maghout, poeta siriano che conobbe la prigione e l’esilio, senza mai abbandonare le sue due passioni, ridere e fumare. «Una notte ho sognato la primavera/ e al risveglio fiori ricoprivano il mio cuscino./ Ho sognato una volta del mare/ e al mattino il mio letto era pieno di conchiglie e pinne di pesce./ Ma quando ho sognato la libertà/ lance acuminate circondavano il mio collo per darmi il buongiorno./ Da ora in avanti non mi troverai nei porti o fra i treni/ ma lì … nelle biblioteche pubbliche/ addormentato sulle mappe del mondo/ (come l’orfano dorme sui marciapiedi)/ dove le mie labbra toccano più di un fiume/ e le mie lacrime scorrono/ da continente a continente». (salvatore de rosa)
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