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27 Ottobre 2016

Vent’anni fa, La Promesse. Quando immigrazione e conflitto non facevano paura

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(disegno di escif)
(disegno di escif)

Sugli schermi europei e italiani arriva nel 1996, proprio vent’anni fa, un film che rappresenta una svolta decisiva. È l’opera di due tra i più rigorosi cineasti europei, i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, che dopo aver iniziato nel ’78 una felice stagione di realizzazione e produzione di documentari decidono di passare al cinema di finzione, avviando un ciclo di film che li porterà (caso rarissimo) a vincere per ben due volte il festival di Cannes. Ma è una svolta anche per il modo con cui i registi decidono di affrontare il soggetto della loro produzione: La Promesse è una storia di immigrazione nella periferia di Liegi, in Belgio, in cui il protagonista non è un immigrato ma è il giovane Igor, quindicenne che aiuta il padre a reclutare e impiegare manodopera clandestina nei cantieri edili della città. Il 1996 è un anno chiave per la politica migratoria europea: con l’ingresso di Danimarca, Finlandia e Svezia si completa il sistema Schengen che era nato una decina di anni prima; in Francia esplodono le proteste dei sans-papier contro la legislazione repressiva verso l’immigrazione; nei Balcani riprende il conflitto in Kosovo, in seguito al quale migliaia di sfollati e rifugiati prendono la strada dell’esilio verso l’Europa occidentale; in Italia la campagna elettorale per le elezioni politiche si gioca per la prima volta anche sull’immigrazione e sul razzismo. In un simile contesto, l’opera dei Dardenne non passa inosservata. Ma perché questo film ha avuto un effetto così dirompente e perché a vent’anni di distanza, soprattutto in Italia, è opportuno riguardarlo e ragionarci sopra?

Partiamo dalla storia. Il racconto si snoda partendo dalle attività di traffico e intermediazione svolte da Igor e da suo padre Roger, che dislocano immigrati stranieri giunti in modo irregolare in Belgio. Li inseriscono nel mercato del lavoro nero e nel sistema amministrativo ufficiale facendosi pagare lautamente dai diretti interessati, li spennano giorno dopo giorno affittando catapecchie, vendendo bombole del gas per il riscaldamento, gestendo piccoli e grandi giri di denaro legati ai documenti e all’andirivieni di amici e parenti dei nuovi arrivati. Igor è complice del padre, ma qualcosa cambia quando Hamidou, muratore burkinabè, muore cadendo da una impalcatura mentre cerca di fuggire all’arrivo degli ispettori del lavoro, arrivo puntualmente anticipato da una soffiata a Roger che si premura col figlio di far scappare i lavoratori dal cantiere. Hamidou lascia la moglie appena arrivata a Liegi, che ignora il destino del marito, e il figlio di pochi mesi. Igor inizia in qualche modo ad aiutare la donna, Assita, fino a rompere con suo padre, ribellandosi e mettendo in salvo Assita dall’ennesimo sopruso.

Il film descrive minuziosamente l’ambiente sociale ed economico in cui prospera l’attività di Roger, soffermandosi sulle complicità istituzionali, le ramificazioni e l’organizzazione del sistema da lui controllato, all’interno di una città situata nel cuore dell’Europa. Le immagini della Liegi già in via di deindustrializzazione e la fotografia in cui dominano i grigi e le nebbie si scontrano con la vitalità dei protagonisti: il coraggio e l’astuzia di Igor, la determinazione di Assita, l’incessante attivismo di Roger, lucido e spietato in ogni sua azione. Nel palazzo mezzo diroccato e mezzo in costruzione dove Roger colloca gli immigrati alloggiano molti rumeni, qualche coreano, alcuni africani provenienti dal Nord Africa e dalla zona subsahariana. Assita e suo figlio nella loro fuga da Roger riescono a entrare per la prima volta in un vero condominio della città solo grazie alla solidarietà di una lavoratrice delle pulizie dell’ospedale dove viene ricoverato a un certo punto il bambino. La città di Liegi è descritta allo stesso tempo come luogo di transito di emigranti (anche verso destinazioni transoceaniche) e come luogo di destinazione, ma soprattutto come luogo in cui si combatte una sotterranea guerra, dichiarata da piccoli e grandi speculatori. Le tracce del recente passato industriale sono richiamate sapientemente dai Dardenne ma il paesaggio dominante è fatto di blocchi di edilizia popolare, di viadotti, di strade a scorrimento veloce.

Visto oggi, La Promesse ci aiuta a riconnettere le vicende migratorie alla dimensione materiale del lavoro, dello sfruttamento e della loro continua riproduzione in rivoli piccoli e grandi. Ma ci aiuta anche a individuare una via di uscita lontana dal vittimismo e dalla compassione lacrimevole: la ribellione di un figlio contro un padre, la presa di coscienza della complicità con un meccanismo ingiusto, il riscatto dentro un contesto che non necessariamente deve portare alla rassegnazione. L’immigrazione e le sue contraddizioni diventano occasione di liberazione, non sono più solo gli emblemi di una degenerazione sociale e civile.  E questa occasione coinvolge tutti, stranieri e non stranieri, smussando separazioni e divisioni.

Le migrazioni portano conflitti, è ridicolo e inutile negarlo. Se questi conflitti trovano soggetti pronti a battersi per allargare i diritti di tutti, il loro esito non può che migliorare le società in cui si manifestano. Ma se prevalgono altri interessi, gli arretramenti (civili, sociali, sindacali, politici) sono dietro l’angolo. I Dardenne hanno saputo cogliere con gli strumenti del linguaggio cinematografico questa evidenza, probabilmente con molto anticipo. Anche da questo linguaggio è bene ripartire per capire le odierne migrazioni di massa e saper utilizzare gli strumenti giusti per contestualizzarle, andando oltre la polarizzazione “tutti carnefici-tutti vittime” che sembra ormai dominare la rappresentazione delle migrazioni. (michele colucci)

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