Il sole picchia forte. Il presidio della Celere nella parte bassa del Pallonetto attende l’arrivo delle maestranze in sciopero. È un giovedì di inizio giugno. Sono da poco passate le dieci quando compare il primo gruppo di metalmeccanici. Sono arrivati all’ingresso della sede della giunta regionale a bordo di autobus costruiti con le proprie mani in una valle dell’appennino campano, ai confini con la Puglia. Sono i lavoratori dello stabilimento ex Iribus di Valle Ufita, in provincia di Avellino, la più grande fabbrica italiana produttrice di autobus. A tenere lo striscione tra le mani intimando a un compagno di provvedere alla distribuzione dei fischietti è una donna, delegata Fiom e volto storico della vertenza. Gli operai sono venuti a Napoli con le organizzazioni sindacali per chiedere al presidente della Campania Vincenzo De Luca un chiarimento definitivo sul futuro dello stabilimento a seguito degli impegni presi dalla proprietà al ministero dello sviluppo economico tre anni fa.
Alla destra del presidio, defilato, c’è Dario, operaio in pensione. È entrato in fabbrica nel 1978. Ha seguito la vertenza anche dopo il pensionamento e continua a sostenere la lotta. «Sono entrato in fabbrica il 23 novembre del ’78. Allora, quando si veniva assunti, c’erano i famosi dodici giorni di prova. Al tredicesimo giorno andai a iscrivermi al sindacato. Per lunghi anni il nostro stabilimento è stato controllato in modo capillare dalla politica. La stessa costruzione della fabbrica è avvenuta per ragioni politiche: doveva essere ubicata a Eboli, ma il presidente De Mita fece di tutto per farla costruire in Valle Ufita. Dalle assunzioni alle commesse passando per la manutenzione degli edifici e degli impianti, non si muoveva una foglia senza l’assenso della politica. La Fiat, ovviamente, lasciava fare perché sapeva che in caso di difficoltà i politici avrebbero provveduto a sostenere l’azienda. La prima crisi arrivò nel 1980. Ci fu un leggero ricorso alla cassa integrazione ma tutto sommato in termini salariali si perdeva pochissimo. Poi noi eravamo metal-mezzadri: dopo aver finito di lavorare in fabbrica andavamo nei campi. Nessuno aveva mai abbandonato la campagna, anzi questa era considerata da molti come la prima attività».
La crisi dell’80 era in realtà una leggerissima contrazione se paragonata a quella che attraversò lo stabilimento nei primi anni Novanta. In fabbrica lavoravano quasi mille e seicento lavoratori. La produzione rallentò e ci fu un forte ricorso alla cassa integrazione, mesi di sciopero con blocchi autostradali e picchetti ai cancelli. Le pressioni esercitate dalla Fiat per ridurre i costi portarono, nell’arco di cinque anni, all’uscita di più di cinquecento lavoratori attraverso accordi di mobilità.
Nel 1995 un piano di ristrutturazione industriale, accompagnato da cospicui investimenti e dall’introduzione di forti innovazioni di prodotto, consentì il ritorno in fabbrica di tutti i lavoratori rimasti, quasi mille e duecento, e una produzione a pieno regime per più di cinque anni. Ogni giorno dai cancelli di Valle Ufita uscivano dai cinque ai sei autobus destinati a soddisfare le esigenze di mobilità di milioni di italiani.
Nel 2001 Irisbus, nata da una joint venture tra la francese Renault Véhicules e l’italiana Fiat-Iveco, passa sotto il controllo totale di Iveco, società del gruppo Fiat Industrial. Nello stesso anno, dopo quasi sei anni di attività a pieno regime, la produzione attraversa una nuova fase recessiva che porterà, prima nel 2005 e poi nel 2008, all’apertura di due procedure di mobilità e all’uscita complessiva di più di duecentocinquanta lavoratori. Anche stavolta, alla cacciata degli operai segue un nuovo piano di ristrutturazione da otto milioni (2008). Alle tute blu irpine viene sottratto un pezzo importante della produzione, gli autobus extraurbani, e affidata la sola produzione di autobus urbani. Nel 2010 viene aperta un’altra procedura di mobilità e agli operai è affidata la produzione di un’altra macchina, il Domino, un autobus turistico di basso profilo con scarso rendimento in termini di mercato.
Le procedure di mobilità e i piani di ristrutturazione attuati da Fiat nell’arco di un quindicennio hanno smantellato in modo graduale, pezzo dopo pezzo, la più grande fabbrica italiana di autobus. È però il 2011 a segnare l’inizio della fine. «Una mattina di luglio del 2011 è arrivata la comunicazione della chiusura definitiva dello stabilimento – racconta Dario –. La notizia l’abbiamo letta dal Mattino perché a noi in fabbrica non era stato detto niente. Dopo ore di sbigottimento, ci siamo fermati e siamo usciti fuori per bloccare la produzione. I picchetti ai cancelli sono durati centosedici giorni, per ventiquattro ore al giorno. Dopo un mese e mezzo molti impiegati hanno deciso di rientrare a lavoro. Dopo alcuni giorni, con i picchetti ancora in corso, sono arrivate undici lettere di licenziamento. Tre erano riservate ai delegati sindacali, tra cui io. Nella lettera era scritto che l’azienda non si fidava più di noi e che dopo i cinque giorni di sospensione per blocco della produzione sarebbe scattato il licenziamento. Era il 28 ottobre e noi stavamo tornando da una manifestazione a Roma. I licenziamenti sono stati una strategia per intimidirci. L’azienda ha detto chiaramente che se avessimo accettato i licenziamenti senza fare casino, loro avrebbero garantito tutto il percorso di uscita dalla fabbrica. Nella storia della Fiat uno sciopero così lungo, mantenendo una fabbrica chiusa e picchettandola per centosedici giorni, non si era mai visto».
Durante lo sciopero l’unica preoccupazione della Fiat fu quella di trovare un potenziale acquirente per lo stabilimento irpino. Al tavolo convocato da governo e sindacati al ministero, l’azienda indicò nell’imprenditore Massimo Di Risio, fondatore dell’azienda automobilistica Dr, la persona che avrebbe potuto traghettare i lavoratori verso una nuova società. «Il piano era semplice – continua Dario –. L’azienda diceva: noi non possiamo più produrre a queste condizioni. Qui c’è la persona che si occuperà di voi. A garantire ci saremo noi passando alla nuova società le nostre commesse. Noi Di Risio non lo volevamo perché scoprimmo che aveva costituito una società con trentamila euro di capitale. Alla fine anche il ministero decise che Di Risio non aveva le carte in regola per rilevare la fabbrica».
Dopo mesi di trattative fu il ministero dello sviluppo economico a individuare un potenziale acquirente. Si trattava dell’imprenditore romano Stefano Del Rosso, un distributore italiano di autobus cinesi prodotti dall’azienda King Long. Le trattative durarono alcuni mesi. Nel gennaio 2015, Del Rosso rileva lo stabilimento Irisbus e fonda la società Industria Italiana Autobus (IIA). L’assetto proprietario della società è diviso tra il settanta per cento di Del Rosso e il trenta di Finmeccanica Spa. Proprietaria del marchio Padane e produttrice e distributrice del marchio Menarinibus, la società nasce dalla fusione degli unici due stabilimenti italiani deputati alla produzione di autobus: Fiat Irisbus di Valle Ufita e Breda Menarinibus di Bologna. L’accordo societario mira a superare un problema: gli autobus vengono costruiti su licenza; dopo la chiusura dell’Irisbus, la Fiat porta via anche la licenza per la costruzione delle macchine. In quel momento, in Italia, l’unico stabilimento a possedere tale licenza è quello di Bologna. Il solo modo per consentire a Del Rosso di mettere in moto la produzione è costituire una nuova società con la partecipazione di un’altra proprietaria di licenza.
«La Fiat ha addirittura finanziato la nascita di questa nuova società con più di cinque milioni – dice Alfonso, quarantacinque anni, arrivato in fabbrica nel 1997 –. Inoltre, per la riattivazione del sito è stato sottoscritto un contratto di sviluppo da venticinque milioni, di cui quasi diciotto concessi da Invitalia attraverso un fondo di investimento. A noi operai è stato anche chiesto di mettere a disposizione della nuova società il nostro Trattamento di fine rapporto, ma abbiamo rifiutato. Dalla nostra mobilitazione la Fiat ha tratto enormi benefici perché finalmente, dopo anni, si è parlato di un Piano nazionale dei trasporti. Negli ultimi anni sono state stanziate risorse consistenti per il rinnovo del parco autobus delle municipalizzate italiane passando da commesse di cinquecento a cinquemila autobus all’anno».
I numeri di cui parla Alfonso sono quelli che negli ultimi anni stanno consentendo a Fiat Industrial, ora CNH Industrial, di vendere alle società italiane di trasporto pubblico locale moltissimi autobus prodotti nello stabilimento francese di Annonay e in un altro stabilimento in Repubblica Ceca, entrambi di proprietà del gruppo. Del piano nazionale dei trasporti ha però beneficiato anche Del Rosso, il quale ha ottenuto diverse commesse per una produzione complessiva di mille e cinquecento macchine. IIA conta ora 488 dipendenti distribuiti tra le sedi di Valle Ufita, Bologna e Fiano Romano. Nello stabilimento irpino lavorano 296 persone. Dal 2011 più di quattrocento sono stati i lavoratori accompagnati alla pensione. L’imprenditore, nonostante la consistenza del portafoglio ordini, sostiene però di non avere sufficienti risorse per mettere in moto una produzione a pieno regime. A partire dagli ultimi anni, infatti, gli autobus destinati alle municipalizzate del trasporto pubblico di mezza Italia vengono prodotti in Turchia. Lo strumento utilizzato da Del Rosso è una partnership commerciale con Karsan, azienda turca costruttrice di autobus alla quale l’imprenditore italiano affida la produzione di autobus ottenendo un profitto superiore ai ventimila euro per ogni macchina prodotta in Turchia e importata in Italia.
«Il punto – sostiene Alfonso – è che chi ha dato le commesse deve chiedere conto del destino degli operai. Questo perché se vinci una gara con un certo prezzo e con la promessa di produrre in Italia e poi vai a produrre in Turchia dove il costo del lavoro è più basso, significa che la differenza te la metti in tasca tu. Il problema è che noi siamo in cassa integrazione e allo stesso tempo andiamo a comprare gli autobus all’estero quando potremmo produrli noi».
I rapporti di Del rosso con Karsan si fondano sullo storico legame che ha unito per decenni l’azienda turca all’industria italiana dell’autobus. È, infatti, la stessa azienda a cui Breda Menarinibus Spa in passato esternalizzava quote di produzione quando lo stabilimento bolognese registravi forti picchi produttivi.
È quasi mezzogiorno quando i delegati sindacali mettono piede nel palazzo. Il presidio ha resistito al sole cocente per due ore. Nel bar di fianco al palazzo, Ernesto, ancora avvolto in una bandiera rossa, mi fa segno di raggiungerlo. È stato il primo ad arrivare a Napoli stamattina, in macchina, accompagnato da moglie e figlia. I problemi di salute gli impediscono di viaggiare con i compagni e di restare a presidiare il palazzo fino a tarda sera. È entrato in fabbrica nel 2006 e la sua è stata una delle ultime assunzioni. Prima ha lavorato come metalmeccanico in giro per l’Italia per quasi dieci anni: Bologna, Varese, Torino, La Spezia, Padova. «Del Rosso delocalizza in Turchia – dice Ernesto – perché non ha i soldi per comprare i pezzi degli autobus e far partire la produzione. Quando si vendono autobus alle municipalizzate, il pagamento non lo ottieni subito dopo la consegna. Quindi, per tenere in moto la produzione, hai bisogno di una forte disponibilità economica. Lui non ha il capitale, per questo riteniamo che la soluzione individuata dal governo tre anni fa, quella che ha portato alla costituzione di IIA, sia stata un inganno, una strategia messa in piedi per consentire a Fiat di liberarsi dello stabilimento italiano senza generare troppe tensioni».
A Valle Ufita non c’è traccia degli accordi siglati a Roma e del contratto di sviluppo di cui Invitalia è principale investitore. Nessun intervento di reindustrializzazione ha messo fine alla lenta agonia della più grande fabbrica italiana di autobus. IIA continua però ad aggiudicarsi commesse in tutta Italia e ha un portafoglio ordini che consentirebbe ai suoi due stabilimenti, quello irpino e quello bolognese, di lavorare a pieno regime per tre anni. Nello stabilimento irpino, progettato per dare lavoro a tremila persone, a lavorarci sono ora in trenta. La produzione è quasi ferma perché l’azienda non ha risorse per le attività correnti come l’acquisto di componentistica e telai. Con una potenzialità produttiva di quattro macchine al giorno, dai cancelli stentano a uscire due autobus al mese. Ogni macchina in uscita è economicamente già in perdita. Nonostante le promesse e gli accordi, lo stabilimento non ha nemmeno più una linea di montaggio. Le linee smantellate e portate via da Fiat dopo la chiusura del 2011 non sono state rimpiazzate. «Quelli anche i telefoni portarono via – continua Ernesto –. Addirittura nello stabilimento ci piove dentro. Lavoriamo in condizioni inimmaginabili. Non ti nascondo che qualche operaio ha portato con sé le attrezzature da casa. Sembra una bottega più che una fabbrica».
L’area industriale di Valle Ufita rientra tra le Zone economiche speciali (Zes) istituite dal governo italiano con un decreto del febbraio 2018. L’istituzione di tali aree è finalizzata ad attrarre investimenti fornendo alle imprese sgravi economici e fiscali, oltre che incentivi speciali per l’avvio di nuove attività. I terreni attorno allo stabilimento sono gli unici rimasti ancora liberi: è chiaro l’intento dell’imprenditore di metterli a profitto appena possibile.
«Abbiamo notato che ha cominciato ad affittare parti dello stabilimento a terzi. Ci sono imprenditori che hanno affittato una parte del piazzale per parcheggiare le bisarche, altri che hanno affittato capannoni. Girano indisturbati per la fabbrica e noi non sappiamo né chi sono né cosa fanno. Pensa che lui lo stabilimento l’ha comprato per pochissimo, è stato quasi un regalo quello ricevuto da Fiat. Ovviamente è stata una strategia di Fiat per mettere a tacere tutte le polemiche».
Sono ancora con Ernesto quando, alle due di pomeriggio, i rappresentanti sindacali lasciano il palazzo della giunta regionale. Sono riusciti a strappare al presidente De Luca un incontro con la proprietà per il 22 giugno. L’intento è quello di conoscere il piano industriale del gruppo e chiarire una volta per tutte il futuro dello stabilimento e il destino dei suoi lavoratori.
«Siamo coperti con la cassa integrazione fino a dicembre 2018 – conclude Ernesto –. La Regione, dopo una commessa vinta da Del Rosso proprio con la promessa di produrre autobus nello stabilimento irpino, avrà tutti i suoi motivi per non concederci la proroga degli ammortizzatori sociali. Con la cassa integrazione guadagniamo anche bene, ma noi siamo operai e vogliamo lavorare. Ci sono sempre più commesse in giro per l’Italia ma gli unici due stabilimenti presenti in Italia non hanno il lavoro, pazzesco! Da noi non c’è nulla e se fai morire questo stabilimento significa far morire una parte consistente dell’economia del territorio. Ci vogliono i soldi e un investimento serio capace di far ripartire la produzione. Occorre innanzitutto la linea, la maledetta linea di produzione». (giuseppe d’onofrio)