A Napoli, la ricerca fotografica da sempre trae linfa vitale dalla storia e dalla memoria della città, ma sovente con una tensione autoriflessiva che le consente di dialogare con le più innovative esperienze estetiche e culturali del mondo contemporaneo (dal cinema alla pittura, dalla letteratura al teatro, alla filosofia). Tra i maestri della fotografia italiana, Cesare Accetta è l’artista in cui questa componente analitica si percepisce in ogni istante del processo creativo con caratteri di assoluta originalità. Questa costante interrogazione sul senso dell’agire artistico nasce anche dall’idea di aver egli sempre considerato la fotografia come uno strumento di conoscenza; che può mutarsi in arte, in immaginazione e poesia, quanto più si allontana da un semplice approccio naturalistico.
La conferma di questa linea riflessiva ci viene dalla sua ultima mostra (una proiezione video su tre differenti pareti, a cura di Maria Savarese), dedicata a Oreste Zevola, geniale artista napoletano prematuramente scomparso, inaugurata nei giorni scorsi al Museo Madre di Napoli, nell’ambito del progetto Per formare una collezione: per un archivio dell’arte in Campania.
Il titolo della mostra è In Luce, e sembra racchiudere molto bene il complesso percorso di Accetta, perché il rapporto con la luce, fin dagli anni Settanta – rappresenta l’elemento, per così dire, amniotico del suo sguardo d’artista; una relazione ricca di suggestioni vitali, che gli ha permesso, nel corso del tempo, di contribuire “dall’interno”, sia alla ricerca teatrale napoletana, sia, nel ruolo di direttore della fotografia, a importanti opere cinematografiche. Lui stesso, del resto, si definisce “scultore della luce”; una luce, egli afferma, che scolpisce, che nel contrasto con l’ombra trasforma con crudezza l’immagine e consente di svelare la parte più nascosta dei suoi personaggi. Le proiezioni (della durata ciascuna di cinque minuti) ritraggono cinquantacinque volti di amici, artisti e attori (riconosciamo, tra gli altri, Laura Angiulli, Monica Biancardi, Cristina Donadio, Alessandra d’Elia, Maurizio Bizzi, Lello Serao, Salvatore Cantalupo, Antonello Cossia, Mario Martone, Tonino Taiuti), che lo hanno accompagnato nel suo lungo viaggio nel mondo dell’arte.
Lo spazio ha caratteristiche non dissimili da quelle di una camera oscura; quegli sguardi intensi che, in dissolvenza, vediamo improvvisamente apparire nel buio, fanno pensare all’immagine fotografica quando lentamente viene alla luce per poi fissarsi sul supporto cartaceo. Di fronte all’apparente immobilità di questi ritratti che scorrono muti di fronte a noi, la prima sensazione che si riceve è di essere immersi nell’esperienza dello Sguardo; di essere cioè direttamente coinvolti in uno stato di sospensione temporale che al guardare associa la particolarità di essere a nostra volta osservati dai soggetti ritrattati. Accetta mette in scena uno scambio, una relazione tra diversi: l’incontro con la Molteplicità attraverso il potere seduttivo della visione. E la forza espressiva che s’irradia dai volti non risiede certo nella loro fedele riproduzione, ma in qualcosa di più profondo che attiene all’intimo rapporto tra il proprio vissuto e la sensibilità umana e artistica degli amici oggetto della sua indagine.
Questa considerazione più generale ci spinge a tornare con la mente a Dietro agli occhi, la stupenda mostra (che prende il titolo da uno spettacolo ideato con Andrea Renzi e Alessandra D’Elia) di qualche anno fa al Pan, in cui non solo le sue immagini ci hanno restituito tutta la pluralità di voci della nostra scena tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento – dal teatro Alfred Jarry dei Santella a Spazio Libero di Vittorio Lucariello, fino a Teatri Uniti e al Teatro dei Mutamenti di Renato Carpentieri e Antonio Neiwiller, di cui fu grande amico e prezioso testimone della sua arte – ma, in filigrana, si sono rivelate un indispensabile strumento per approfondire la conoscenza di comunità teatrali che non sempre sono state riconosciute in tutto il loro valore.
All’interno di una dinamica linea di confine tra fotografia, cinema, arte e teatro, nel corso degli anni, un particolare rilievo – come dimostrano anche i videoritratti del Madre – nella visione di Accetta lo ha assunto, come scrive Savarese nell’introduzione al suo lavoro, l’indagine “sull’elemento corpo”; una corporeità che, nelle immagini fotografiche come nei video, fa spesso pensare a un mutamento, a una metafora della nostra stessa esistenza. Infatti, i volti che qui vediamo scivolare nella penombra sono solo apparentemente immobili; lasciano invece trasparire impercettibili movimenti delle labbra, del collo, degli occhi; occhi da cui, talvolta, sgorga una lacrima: un segno di un malinconico sentimento del tempo che va ben oltre la sfera individuale per alludere alla solitudine e al dramma che vivono oggi milioni di esseri umani in tante parti del nostro mondo.
Come in certi dipinti di Bacon, inondati da improvvisi bagliori di luce, di quei volti, poi, a tratti, s’intravedono solo brani, frammenti di corpo – un naso, un orecchio, una bocca, un occhio, dei capelli, dei baffi, o una barba incolta – prima che il movimento si ricomponga e ci restituisca, nella sua interezza, l’immagine enigmatica dei visi, in un oscillare tra presenza e assenza che, alla fine, conduce fatalmente alla cancellazione dell’io, al denudamento, a una radicale sottrazione dell’identità del soggetto.
Accetta ci svela la parte più segreta dei suoi compagni di viaggio. Ma questi ritratti sono anche il suo autoritratto: l’ultimo stadio di uno scavo interiore che lo spinge (e ci spinge) a guardare oltre il diaframma delle apparenze per scoprire la verità dell’inconscio. L’altro che ci abita e che non riusciamo quasi mai a riconoscere. Una lezione di libertà creativa che sarà difficile dimenticare. (antonio grieco)