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recensioni
5 Dicembre 2017

Sognare per svegliarsi dall’incubo. Appunti dal Torino Film Festival

Francesco Migliaccio amilcare cabral, archipelago, camilla inom, corno d'africa, dani kravan, filipa cesar, francesc migliaccio, giulio squillacciotti, guinea-bissau, nella golena dei morti felici, new york, persia, port bou, ramallah, spell reel, taybeh, tel aviv, the crescent, walter benjamin, zuccotti park
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(disegno di cyop&kaf)

Vedo il cimitero marino di Port Bou sospeso sulla massa calma e scintillante del Mediterraneo. All’ingresso, proprio accanto all’ulivo, ecco un antro che s’addentra nel sottosuolo e scende giù sino alla marina. Il passaggio buio è un memoriale realizzato nel 1994 da Dani Karavan in ricordo di Walter Benjamin. Cinque decenni prima il filosofo era morto a Port Bou dove la terra cade nel mare, al confine fra Francia e Spagna. Una voce racconta: «Sedevo con un’amica in Habima Square, a Tel Aviv, e lei mi ha detto che la piazza era stata ideata da Karavan». La corrispondenza inattesa è l’origine di For Now di Herman Asselberghs. Lo sguardo s’aggira fra tre città: Tel Aviv, Ramallah, New York attendono il viaggiatore che ha l’occasione di stringere fra le dita un visto mentre il pericolo s’avvicina. Vedo i migranti africani che s’aggirano nella città israeliana, un ulivo a Taybeh, i leoni nel centro di Ramallah, passeggiatori a Zuccotti Park, poi svettano i pinnacoli di Rawabi, città palestinese del futuro. La voce ripete: «Sognare è l’unica via per svegliarsi dall’incubo».

Come transitare dal cimitero al blu marino, dall’incubo al sogno, da un mondo di qua a uno di là? In un arcipelago del mare iranico ci sono folate di vento, o soffi di spiriti. In lingua farsi “bād” dà il nome sia al vento, sia allo spirito che di soppiatto s’insinua nei vivi. Laggiù gli isolani eseguono riti musicali per entrare in contatto con i refoli, chiedere loro consiglio, o domandare di liberare i corpi abitati. In Archipelago di Camilla Insom e Giulio Squillacciotti vedo pratiche di comunicazione con il mondo di là, assisto a procedure di esorcismo e di liberazione dal male. Un uomo cammina lungo la battigia  e racconta: «Un giorno, mentre passavo accanto a quella roccia, ho sentito delle voci». In apparenza sembravano richiami di gabbiani, ma erano le voci dei famigliari. «Allora la mia torcia si spense e sentii la mia anima lasciare il mio corpo. La mia anima lasciava il mio corpo e compresi che non ero più io». Poi l’uomo della spiaggia ha sognato una casa senza porte né finestre, ombre scure giravano intorno a lui, racconta di aver urlato: «Aiuto, salvatemi! I jinn mi stanno seguendo!». Per scacciare un jinn si deve convocare uno zār, spirito originario del Corno d’Africa. Nelle isole di frontiera, crocevia fra due continenti, accade che spiriti ventosi della Persia, jinn e demoni africani negozino in grande mescolanza. L’evocazione dello zār sembra avvenire durante l’adunanza con le percussioni, dove i posseduti sono coperti con lenzuola bianche e muovono il collo a tempo. Io sono al cinema, mi trovo nella buia sala asettica, e non vedo riti, ma la riproduzione tecnica soltanto. Archipelago è un film etnografico e registra le esperienze di passaggio: a me giunge la pelle morta del rito vivente.

Esploro ancora il bagnasciuga in The Crescent, film canadese dell’orrore. L’onda avanza e si ritrae e poi avanza ancora, mi trovo in un territorio dove il mare non è più, la terra non ancora. È luogo, questo, per coloro che stanno in bilico fra i mondi: morti scontenti, uomini in coma, sonnambuli. Come ogni frontiera la battigia è area di conflitti e l’esploratore deve essere pronto al risveglio. M’impongo di fare attenzione ai paguri, crostacei infidi in attesa di un guscio buono per tentare la traversata e tornare fra i vivi. A volte, nell’ora mattutina, è possibile incontrare l’angelo dei rifiuti che s’aggira sulla riva per recuperare gli oggetti abbandonati alla corrente. Riempie un sacco nero della spazzatura e si trascina più avanti, scompare all’orizzonte. (Ma per quale motivo, mi chiedo, i vissuti passati oltreconfine devono essere mesti, tormentati, livorosi? Nelle contrade romagnole è facile sentire risate di morti contenti: s’aggirano per la campagna, fumano il sigaro, ascoltano l’opera in grande baldanza festosa. Di questo racconta Nella golena dei morti felici).

Gli incontri con fantasmi e spiriti che si muovono lungo il bagnasciuga non sono espedienti per suggerire atmosfere romantiche, ma tentativi di trovare nuove risorse per liberarsi. L’incubo ci riguarda tutti perché «neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince». Aggiunge il morente a Port Bou: «E questo nemico non ha smesso di vincere».

Ora vedo scorrere sullo schermo una pellicola rovinata, le immagini appaiono rigate. Ci sono tre uomini in fila, dopo tre soldati reggono la bandiera della Guinea-Bissau – è l’epoca della rivolta contro il colonialismo portoghese. Poi le immagini divengono più terse, sono in Guinea-Bissau nel 2012: uomini maneggiano vecchie pellicole, organizzano e archiviano i materiali girati durante le rivolte. Scorre una sequenza color seppia, seguo un sentiero di campagna e vedo campeggiare un’immagine di Amilcare Cabral, artista e leader del PAIGC (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde). Cabral nel 1967 iniziò a formare giovani operatori di cinema affinché fosse resa testimonianza della lotta. Accanto una didascalia mi avverte: «trasformando le bobine / in materia digitale / convocando spettri / per materializzare». Filipa Cèsar, in Spell Reel, contribuisce alla rievocazione di fantasmi ritornanti dal passato: le vestigia sulla pellicola prendono nuova vita in forma di memoria collettiva. Le bobine trasformate e archiviate sono proiettate su teli bianchi stesi in piccoli villaggi dove gli abitanti si riuniscono per rammemorare le lotte dimenticate. Spiega al pubblico una ragazza, adesso: «Vogliamo mostrare questo affinché possiate rivivere il passato ed essere consapevoli che è esistito». Leggo ancora dalle note scritte ai tempi di Port Bou: «Solo a un’umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato». La perseveranza – che qui è ostinazione nella rievocazione di un passato citabile in ciascuno dei suoi momenti – mette «sempre di nuovo in discussione ogni vittoria che sia mai toccata a chi è al potere». E alla fine di Spell Reel ascoltiamo una registrazione di Miriam Makeba che canta in Bissau nel 1976: «When your troubles all have a’gone away / And you’re sitting mighty pretty / In the morning when you start your day / And you know you have no worry / Think a little of your fellow men / Who ain’t as lucky as you may be / Oh let him know that yes, you give a damn / You’ll never never never be sorry / You’ve got to rally / you and me got to rally / Everybody shuould rally / I said we’ve got to rally / Rally round the PAIGC». (francesco migliaccio)

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