CPH:DOX è il festival internazionale di film documentari di Copenaghen, che dal 2003 si tiene ogni anno nella capitale danese. È considerato il terzo festival al mondo per grandezza e numero di film in concorso nelle diverse sezioni, e quest’anno ha superato tutti i record precedenti con più di duecento film selezionati e un calendario fittissimo di proiezioni, dal 5 al 15 novembre, all’interno di cinema storici, multisala e cineteche appartate. Poco interessato al concorso e ai vincitori, mi sono invece immerso nella visione.
I titoli migliori, probabilmente, non li vedremo mai distribuiti nei cinema italiani (eccezion fatta per Bella e Perduta, il film di Pietro Marcello che ha riscosso molto successo di pubblico a Copenaghen e ha quasi vinto la sezione principale, appena uscito in molte sale italiane). Contro ogni opportunità, propongo qui le recensioni di quei film che non mi hanno lasciato quando sono finiti e le luci in sala si sono riaccese. Vi consiglio di cercarli in qualche buon festival. E agli organizzatori di festival, suggerisco di tenere d’occhio questi titoli. (salvatore de rosa)
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Frederick Wiseman racconta da quasi quarant’anni porzioni della vita collettiva, istituzioni totali e luoghi d’interazione sociale attraverso film che hanno la spontaneità del documentario e l’intensità del cinema d’autore. In Jackson Heights è la sua quarantatreesima sortita nelle vite altrui, e stavolta, il maestro Fred, si cala con la sua agile troupe in un quartiere simbolo di New York, Jackson Heights appunto, stretto tra il Queens e Manhattan, esplorando attraverso un approccio collaudato la geografia umana che formicola a tutte le ore nelle cinque avenue e nelle decine di street a nord dell’omonima stazione della metro.
Jackson Heights è uno dei più luoghi più multiculturali del pianeta: un piccolo pezzo di città con più di cento lingue parlate nelle sue strade e tante comunità di immigrati stabilitesi qui in momenti diversi, insieme al loro portato di abitudini, culture gastronomiche, musicali e religiose. La vita quotidiana che vi scorre rappresenta il ciclico riformularsi del tessuto antropologico delle città statunitensi, nella tensione tra il lento radicarsi di tradizioni comunitarie e i sussulti delle trasformazioni urbane e demografiche.
In un gruppo di supporto per migranti dal Sudamerica privi di certificato di residenza, nel quale Wiseman ci conduce a più riprese, viene offerto ascolto alle storie di pericolosi attraversamenti del confine e di soprusi sul lavoro che non possono essere denunciati altrove. L’occhio scorre sulle espressioni attente, si ferma su un uomo licenziato senza motivo che snocciola con dignità i particolari della vicenda, e ci fa entrare nella stanza affollata senza far rumore, come se nessuno notasse la camera, anche se sono proprio l’occhio e la sensibilità di Wiseman a creare quel frammento di mondo in cui ci troviamo. Di nuovo in strada: i suoni di una banda, le insegne dei ristoranti peruviani, delle manicure messicane, dei supermercati cinesi, un venditore di libri del Corano, un’elegante e anziana signora bianca che si scalda al sole su una panchina appartata; e come se avessimo camminato fino a quel momento divagando con lo sguardo, ora siamo fermi davanti a quello che sembra un centro culturale ebraico. Entriamo, c’è un’assemblea in corso di un gruppo di stagionati attivisti LGBT che discute dell’opportunità di cambiare sede per le loro riunioni in vista della preparazione della parata annuale in memoria di Julio Rivera, ucciso nel quartiere venticinque anni fa perché gay. Non tutti sono d’accordo nello spostare la loro sede, dopotutto la comunità ebraica li ha accolti e non si è mai dimostrata insofferente alla loro presenza. Altro spostamento, la facciata con la stella di David, la strada trafficata, un’altra facciata, stavolta anonima, in cui scopriamo una scuola di arabo per bambini. I quadri si susseguono in un immaginario percorso nel quartiere, entrando e uscendo dai luoghi attraverso i raccordi visivi forniti dallo spazio urbano, salvo indugiare sulle relazioni umane che raccontano molto più di quel che si vede.
Wiseman, come in tutti i suoi film, è interessato a testimoniare la somma di interazioni che fanno i mondi sociali, quei momenti in cui individui diversi provano a stabilire una connessione o entrano in conflitto. A Jackson Heights, la diversità sembra la cifra che tiene insieme il film e l’intero quartiere, una diversità che è l’orgoglio del funzionario pubblico al consiglio della città eletto nel quartiere, Daniel Dromm, gay dichiarato e primo sostenitore dei tentativi delle associazioni locali di lottare contro intolleranza e razzismo. Quasi senza volere, scegliendo di documentare riunioni di attivisti e immigrati, proteste della comunità LGBT, delicati momenti di negoziazione tra Dromm e il sindaco di NYC Bill De Blasio, Wiseman ci trasporta su un terreno decisamente politico. La domanda che aleggia sembra essere: chi fa e disfa il quartiere e chi decide dei suoi abitanti? Un interrogativo che riemerge prepotentemente in uno dei fili narrativi che corre attraverso il film: Jackson Heights sta diventando una preda succulenta per il Queens Business Improvement District, un gruppo di ricchi investitori attratti dalle possibilità speculative degli edifici e degli spazi del quartiere, che al momento ospitano famiglie di immigrati e piccoli negozi con affitti ancora relativamente bassi per essere a due passi da Manhattan. Un intero mercato coperto è già diventato un megastore e i commercianti raccontano con impotenza di contratti d’affitto non rinnovati e intimazioni di sgombero. La demografia di Jackson Heights, e con essa l’anima del quartiere, stanno cambiando ancora una volta, ma ora, sotto la spinta di anonimi investitori, c’è il rischio concreto che diventi come altre aree di New York, omologate e depurate dalle famiglie a basso reddito, trasformate in costose enclave della classe ricca sradicata, dei creativi del momento e degli outlet del capitale. Lo stesso processo in atto in centinaia di città intorno al mondo, che in questo film diventa tanto più odioso in quanto minaccia un quartiere in cui le articolazioni del fare in comune sono diventate forti, capaci di dare conforto e senso alle vite dei residenti, e che abbiamo imparato a percepire attraverso la sensibilità di Wiseman.
È quasi certo, conoscendolo, che Wiseman non avesse intenzione di fare un film dichiaratamente politico. Probabilmente, attraversando il quartiere, ha presto realizzato che l’organizzazione comunitaria era la cosa più interessante che accadeva, quella che costringeva le persone a mettersi in gioco, a esporsi e mostrarsi, esplicitando sogni e desideri. In Jackson Heights è un altro pezzo del suo mosaico di mondi, senza alcuna tesi da dimostrare, ma anzi lasciandoci un contraddittorio caleidoscopio d’interazioni e storie la cui risoluzione è lasciata alla nostra riflessione. Wiseman si limita a fare quel che fa da sempre: gettare luce sul nostro stare insieme, in un moltiplicarsi della complessità che sembra non avere fine. (salvatore de rosa)
In Jackson Heights
di Frederick Wiseman. 190 min, USA, 2015
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