Succedono cose vere, per strada. Poi anche cose verissime. Quelle che sono talmente vere che quando le racconti tutti pensano che sia una palla. Sono sempre accadute, anche in passato, ed è un lavoro necessario cominciare a raccontarle, come nel caso di Melione, sul quale se ne dicono molte.
Dice che Melione era talmente tanto tempo che lo chiamavano così che si era dimenticato pure lui il nome dell’anagrafe. Nell’estate del 1939, quando arrivò la cartolina di precetto, sua moglie era morta da qualche anno mangiata dalle febbri e lui spartiva la sua vita da single fra il forno dove lavorava come tuttofare e la piazza. Ci dormiva pure, nel cortile del palazzo dove facevano il pane, in una casupola con un letto e un catino con una brocca, uno specchio e un quadro di Stalin.
Dalle nostre parti la Resistenza non ha lasciato un’epica paragonabile a quella degli Appennini. È una storia che non è mai stata trasformata in mito come al nord. Meno ancora la storia dei comunisti, in gran parte sommersa o affidata alla trasmissione orale. La storia ufficiale è per lo più storia di ceti dirigenti e le biografie di questi comunisti arcaici, che dalla mistura fra la dottrina stalinista e la cultura dei padri hanno prodotto una tela di storie mirabili, sono ancora un capitolo da scrivere. Melione era uno di questi, coi folti baffi spioventi e il portachiavi col faccione di Stalin. Addavenì baffone, c’era scritto e quella era la legge. Dice pure che una volta mentre dormiva ubriaco sul pavimento dell’aia gli tagliarono un baffo, provocando la mattina dopo una guerra come quella che avrebbe vissuto di lì a poco da soldato.
Che la storia dei conflitti armati rispecchi sempre la divisione in classi delle società che le affrontano è ormai un dato assodato. È per questo dato così incontestabile che Melione finisce dentro una divisa dell’esercito italiano e gira per l’Europa a sparare ad altri ragazzi poveri come lui senza capirne bene il motivo. Anzi, mangiandosi il fegato ogni notte, in branda o nel fango di una trincea, perché proprio lui, che nella sua baracca prima di dormire guardava il quadro di Baffone e gli parlava e gli voleva proprio bene a Stalin, doveva combattere per l’Impero del capocchione fascista. È in quei momenti che ti sorregge solo la fede. E Melione ce l’aveva, in questo uguale ai ragazzi che avrebbero combattuto sugli Appennini di lì a breve, era quella convinzione cieca che covò sempre nelle generazioni successive, fino al Sessantotto e oltre. Addavenì.
Nell’ottobre del 1940 entrò con le truppe italiane in Grecia, arruolato insieme a migliaia di ragazzi per la campagna che avrebbe dovuto espandere lo sbrindellato impero italiano ad est. Era il destino di cartapesta di questo Paese, gli altri si mangiavano l’Africa ricca e noi la Somalia. Leopoldo il belga si abbuffava col Congo e a noi l’Albania. Melione pure con la divisa dell’esercito fascista non aveva mai smesso di portare in tasca il portachiavi con la faccia di Stalin e dice pure che quando ci fu la disfatta si ubriacò per la contentezza in un bar di Valona. Poi si mise in marcia per tornare.
Un’altra delle cose verissime che sembrano inventate è che Melione dall’Albania tornò a Mugnano a piedi. Senza saper leggere e scrivere ma con la certezza di poter capire che ore sono dalla posizione delle lancette. Una clessidra lo avrebbe fottuto. Dice inoltre che fu imperdibile pure il dopoguerra, di Melione. Con i primi soldi che arrivavano alla ripresa dei commerci, i proprietari del forno comprarono una cucina a gas. Era un cucinino della B.B. Gas, che avrebbe migliorato i pasti di tutti, permettendo di abbandonare le carbonelle. Al primo pasto il baffuto filosovietico mise in atto l’inevitabile scontro tra modernità e tradizione. Per dare vigore alla fiamma, in piedi davanti alla “Bibbigas” aveva giustamente pensato di sciosciare forte con un ventaglio, invece che affidarsi alle manopole. Che, poi, manco aveva idea di che cosa fossero, le manopole. La puzza del gas arrivò subito alla piazza del paese e solo l’intervento fulmineo di alcuni giocatori di stoppa evitò la tragedia fermando la fuga di gas. Melione rimase perplesso a guardare quella strana piastra di metallo pensando alla fiamma che quando aveva sciosciato invece che alimentarsi, si era spenta. Misteri della modernità che avrebbe da lì in poi ingaggiato una lunga battaglia per conquistare quella gente.
Questo si dice e altro ancora di quella storia proletaria che si è intrecciata con le guerre dei potenti, sono i racconti dei reduci, i ragazzi della campagna di Grecia o quelli congelati nella steppa. Qualcuno è tornato, qualcuno no. Molti hanno combattuto, sui fronti crudeli della Storia maggiore e tra le stradine di quei paesi. Una guerra silenziosa ma sporca e sanguinolenta come tutte le altre e affollata di storie. Quella di don Rolando Rossetti e dei tre religiosi fucilati a Mugnano o quella di Luigino che scacciò i marocchini in cerca di donne con una forcina per appendere il bucato. Storie così, che occorre tirare fuori dall’ombra. A partire da quella di Melione che quando gli chiedevano «Ma come hai fatto, Meliò, a tornare a Mugnano che non sai leggere manco i nomi delle strade?», rispondeva serafico «È stato facile, sempre diritto, arrivati a Trieste girate a sinistra». (antonio bove)