I manufatti degli uomini sono imitazioni della natura, ho pensato quando il sole tramontava oltre le montagne francesi. Il fiume Roja è il tracciato originario della valle: l’acqua sgorga sopra Tende, discende nella piccola città, sfiora Saint Dalmas, Fontan, Breil-sur-Roya, Piène Basse, Fanghetto, San Michele e sfocia a Ventimiglia. Anche la strada ha anse sinuose che seguono il corso dell’acqua. Il letto d’asfalto, come il fiume, ha i suoi affluenti: la via che da Saint Dalmas porta a La Brigue; quella che da Fontan sale a Saorge; i tornanti che da Piène deserta conducono a Libre fra gli ulivi; la salita che congiunge San Michele a Olivetta paese in silenzio. Sfocia infine la strada nella fosca area industriale di Ventimiglia, fra capannoni d’ipermercato, uno scalo merci abbandonato, il centro d’accoglienza della Croce Rossa. E le rotaie sono l’imitazione in ferro del fiume: corrono fra le stazioni di Tende, La Brigue, Saint Dalmas-de-Tende, Fontan Saorge, Breil-sur-Roya, Olivetta San Michele, Airole e infine Ventimiglia presidiata dai soldati italiani. Tutte le linee solcano la frontiera e attraversano il confine, ma solo il fiume cambia il nome e il genere: “la Roya” francese, “il Roja” italiano.
Della valle di frontiera raccontiamo di uomini e donne in cammino, dei campi e degli accampamenti che abitano, descriviamo i volti loro, i desideri. Mi sono chiesto le ragioni di un’ossessione rappresentativa. I loro passi, in verità, sono silenti e circospetti: movimenti di chi non desidera attenzione. Di rado, invece, le guardie compaiono nei nostri ritratti, se non in occasione di eventi speciali: arresto, repressione e cattura. Ora distolgo lo sguardo dalle ombre che passano e osservo i piccoli gesti di uomini in divisa, le lente ore di nulla, gli usi e i costumi di forze dell’ordine in servizio nel paesaggio d’autunno.
Quando il treno di Cuneo raggiunge la stazione di Breil-sur-Roya, tre gendarmi s’avvicinano ai vagoni. Hanno pistole e giubbetti antiproiettile, uno di loro imbraccia il fucile d’assalto. Il gendarme con il fucile resta sulla banchina mentre gli altri entrano nell’ultimo vagone per controllare i documenti. I due avanzano lentamente, il terzo li osserva attraverso i vetri con volto di sfinge e prosegue piano sino alla motrice. Breil-sur-Roya è l’ultima stazione francese, dopo il treno ferma a San Michele. Perché la gendarmeria francese ispeziona i treni che stanno per entrare in Italia? E perché i controlli avvengono a Breil e non a Tende, Saorge, La Brigue? È difficile comprendere le ragioni, a volte credo che qui non vi sia perché. Allora provo a ritrarre vedute in forma di frasi come il fotografo di Blow up cattura immagini nel parco.
È ottobre, le ginestre sono sfiorite ormai; lungo i fossi verghe d’oro infestanti diffondono il giallo. Sulla strada fra Breil-sur-Roya e il confine, in uno slargo che sporge sul fiume, staziona una camionetta dei gendarmi: un agente accarezza l’arma e osserva assorto il greto. Pochi metri oltre incontro il Pont de Rogne, un passaggio in disuso. Un’auto della Gendarmerie attende all’imbocco del ponte, un agente siede al volante, un altro è in piedi e si guarda attorno. In fondo compare un terzo gendarme con i pantaloni mimetici: ha finito di perlustrare il sentiero che costeggia la Roya. Oltre il ponte il versante prende il sole da sud-ovest e gli ulivi, seppur lasciati a loro stessi, sono carichi di frutti. (Tutti mi dicono che questa è una stagione fortunata). Un fico smagrito muta le foglie in giallo e l’auto se ne va.
Al di là degli ulivi cresce un boschetto di pini marittimi. Imbocco il sentiero e risalgo un poco la valle, sopra gli aghi di pino trovo una lattina di “piselli e tonno”, la marca è italiana. Cerco il punto d’appostamento migliore per osservare il presidio organizzato nello slargo oltre la Roya. Nessun agente scruta il fiume adesso. Nella camionetta siede un gendarme in occhiali da sole, non presta attenzione al mio passaggio. Perché stazionano lì? Controllano questo sentiero? Sopra di loro il bosco muta in tinte rosse e d’argento, a mezza costa appare il taglio della strada ferrata. Il gendarme nel furgone sembra appisolato. Ora fa caldo perché finalmente il sole è sorto dal crinale. Per non disturbare il gendarme mi nascondo dietro un leccio; il fiume fra noi fluisce e copre i rumori dei miei passi. Odore di resina fra cisti e lentischi, m’accorgo di essere controvento. Il gendarme tiene in mano assorto un telefono portatile, sembra concentrato sullo schermo.
Verso valle, prima del confine di Fanghetto, la polizia francese ha allestito un posto di blocco per le auto provenienti dall’Italia. Sono appostato in alto sul versante orientale dove passa il vecchio sentiero fra Fanghetto e Libre. Siedo fra pini marittimi succhiati dall’edera, arbusti spinosi s’aggrovigliano nel sottobosco. Il sentiero – una striscia di frammenti franosi – era l’antica via del sale quando la strada dipartimentale ancora non esisteva. In basso, lontano, scroscia il fiume e ancor più distanti le auto ronzano sull’asfalto. Là, in un’ampia rientranza della strada, le vetture passano attraverso il posto di blocco della polizia, rallentano, proseguono. Da qui non vedo i movimenti degli agenti, ma scorgo un bus bianco della polizia sotto un pino. L’occhio lascia il bus e scorre sulle alture poco sopra: emergono ancora i muretti a secco fra il bosco che avanza. Un’auto bianca con strisce blu e rossa è parcheggiata accanto al bus e un cardo cresce sul mio sentiero.
Sono sceso al fiume e ho raggiunto la strada. Di fronte al posto di blocco della polizia francese c’è un sentiero che sale a Piène Haute. Dal sentiero, fra i lecci che gettano ghiande, osservo meglio l’avamposto. Hanno montato un tendone dinanzi al bus, due poliziotti attendono sotto accomodati su sedie di tela; accanto hanno un tavolino con bicchieri di plastica e bottiglie d’acqua. Arriva un’auto, rallenta di fronte ai birilli e devia nel posto di blocco; i due si alzano, osservano il conducente e i sedili posteriori, l’auto procede. Mi distraggo. Qualcuno cammina alla mia destra, sopra le rotaie: è una figura blu in movimento. Ecco un’altra macchia blu. Sono due gendarmi e controllano le rotaie della ferrovia.
In primavera percorrevo la strada in auto. Dopo un caffè da Marisa, il bar di confine, raggiungevo il posto di blocco oltre Fanghetto. Spesso pioveva, la via era poco frequentata perché erano giorni lavorativi. I poliziotti mi scrutavano con un’occhiata, poi m’invitavano a proseguire con gesto svogliato della mano. Il fine settimana, invece, c’era traffico e gli agenti controllavano ogni bagagliaio. Il sabato della partita fra Francia e Argentina, ricordo, s’era formata una fila di dieci minuti a causa delle ispezioni. Perché i loro sguardi rovistavano le viscere dell’auto durante i periodi di denso transito e di festa? Perché i controlli erano più blandi nei pomeriggi di quiete? Posso solo registrare le apparenze visibili, tracciare sulla mappa i punti esposti alla luce – alle informazioni riservate non ho accesso. In quei giorni leggevo il libro di Paolo Veziano: Ombre sul confine, uno studio storico della frontiera al tempo dei passaggi clandestini degli ebrei. Veziano trascrive i documenti della procura di Ventimiglia e dimostra che le forze dell’ordine fasciste favorivano – in alcuni frangenti – la migrazione clandestina degli ebrei. Per ragioni di ordine pubblico le guardie si accordavano con i passeur. Lo storico può accedere al versante in ombra, ai documenti nascosti, e ricostruire le ragioni, vedere il disegno di una strategia sottaciuta. Io sono un osservatore in un tempo in cui la pura visibilità consente soltanto una collezione di frammenti sparsi: ogni teoria è slabbrata, inadeguata e siamo poveri di risposte.
Da San Michele, in Italia, una deviazione sale verso Olivetta. Sopra l’ultimo villaggio italiano la vecchia casa di confine è abbandonata. Sono in un paesaggio di ulivi contro le montagne, scopro che i lentischi d’autunno cangiano in rosso. La strada è libera da controlli, passo accanto a un incrocio esposto ai venti di montagna: a destra s’arriva a Piène Haute, ma io proseguo in direzione di Sospel. Poi la via procede in falsopiano e incontro una déchèterie e la vecchia chiesa di Saint Gervais trasformata in casa d’accoglienza per turisti. Ora vedo uno snodo presidiato dai gendarmi, postazione davvero strategica. Qui s’incrociano le strade che giungono da Olivetta e da Breil-sur-Roya: qualunque auto che venga dall’Italia – che sia entrata da Olivetta o dal colle di Tenda – deve transitare di qui per raggiungere Sospel e inoltrarsi in Francia. In questo passaggio obbligato l’occhio sornione delle guardie sorveglia le vetture. Ci sono tre gendarmi e una camionetta, una luminaria per la notte, un tavolino con bottiglie d’acqua. Nei momenti di quiete uno scrive al tavolino, gli altri s’intrattengono su uno schermo di telefono.
Sulla strada per Sospel ho visto due furgoni dell’Armée française carichi di militari. Poi è passata una Berlingo bianca stipata di tute mimetiche. I militari sono una specie strana, sempre in movimento. Si racconta che sotto la luna i soldati corrano sui sentieri, rumore di scarponi e lame di luce sparate. Una notte erano a Libre e presidiavano il sentiero che viene da Fanghetto. Allora, era la festa di fine giugno, gli uomini dell’Armée s’erano appostati anche nella piccola piazza del paese: vegliavano un capannone gremito di avventori con spillatrici di birra nell’angolo, un maiale ad arrostire, musica dance che pulsava intorno. Ho lasciato la festa a mezzanotte per raggiungere la casa dove abitavo, a Garavan. Sono rientrato in Italia dalla parte di Fanghetto, ho attraversato Ventimiglia e ho proseguito per i Balzi Rossi: la frontiera alta sotto Garavan era libera dai controlli, sono passato senza rallentare. Mentre l’esercito si mostrava in un piccolo villaggio dell’interno, il posto di blocco costiero era sguarnito.
Fra terrazze a picco sul mare vivevo a Garavan, quartiere di Menton addossato al confine. Lavoravo in una ficaia al sole di giugno, irrigavo piante di avocado, kiwi, banani e carciofi. Nelle terrazze sottane crescevano gli ulivi, ma nessuno si curava di loro. I muretti erano lentamente ricostruiti da Mario che nacque ottant’anni fa a Latina. Mario compariva la mattina alle otto, mi salutava con una cantilena di parole in dialetto laziale e trascinava i piedi sino alle terrazze. Non parlava francese, sebbene fosse emigrato qui negli anni Cinquanta. «Giù non c’era lavoro, sono venuto qui con mio fratello. Ho lavorato a Mentone, a Parigi, in Germania – si girava, quanti viaggi, eravamo giovani». I muretti antichi erano a secco, ma Mario li restaurava con la calce: «Così tengono meglio, sai?». In quei giorni lavorava alla prima terrazza, quella vicina alla strada del nostro cancello. Era una stretta via d’asfalto che costeggiava l’autostrada. Una ripida parete di roccia vegliava su di noi: vivevamo all’ombra del Passo della Morte. Mario aveva un fratello gemello che non poteva lavorare, cinque anni prima era stato colpito da un ictus leggero. Sulla strada accanto al piccolo cantiere di Mario passava la ronda dei militari a caccia di migranti, io raccoglievo i fichi e il mare luccicava in basso. Il fratello di Mario ci raggiungeva a metà mattina, vestito di tutto punto con le scarpe lucide, si sedeva sotto un grande fico e diceva: «Si prende un po’ di aria alla testa, fa bene». Mario mi raccontava della separazione con la moglie, della figlia che vedeva poco e della sua vita in un monolocale con il fratello. «Finché ho forza, lavoro. Ho una pensione di mille euro e se lavoro mi posso permettere una fetta di carne, una bottiglia di vino in più. E poi sai perché lavoro? Metto da parte i soldi per quando non avrò più le forze. Allora andrò in casa di riposo. Si lavora per questo: per andarsene tranquilli in casa di riposo, capito?». Noi sapevamo che Mario amava le scommesse, sorridevo mentre tagliavo i polloni dei fichi e i militari pattugliavano la strada sotto il Passo della Morte. «Prendiamo aria, fa bene alla testa», diceva il fratello. Un giorno i militari mi hanno fermato sulla strada, credevano fossi un migrante. Altri soldati, più distante, stavano puntando i fucili e urlavano contro qualcuno. Io ho risposto in francese, ho mostrato il passaporto e loro hanno mormorato: «Excusez-nous, monsieur». La ronda dell’Armée andava avanti e indietro lungo la strada e poi proseguiva sino a Castellar per controllare tutti i sentieri connessi al Passo della Morte. Il fratello aveva le scarpe lucide e i capelli sempre ben pettinati, Mario trascinava pietre con la motocarriola e mi raccontava della vita in riposo che lo attendeva nella casa degli anziani. Sotto il sole avevamo la testa esposta all’aria.
L’autostrada corre fra Ventimiglia e Nizza e segue la linea della costa. Il casello prima di Nizza è presidiato da due gendarmi svogliati con le braccia sul fucile. Attraverso questa barriera passano migliaia di auto ogni giorno e nessuno potrebbe controllarle tutte. Perché disporre ispezioni capillari sulla strada dipartimentale se il filtro in autostrada è così poroso? Provo a concepire il problema in altro modo: il posto di blocco non è una forma di controllo, ma di deterrenza. Esiste una possibilità – per quanto minima – che i gendarmi in autostrada fermino un’auto: la gestione dell’ordine ha nel caos il suo fondamento. Osservo la mappa e comprendo che nella rete stradale della val Roja non esiste modo di passare con l’assoluta sicurezza di sfuggire alle guardie. Questo non significa che non si passi, o che non esistano altre vie per andar di là senza rischi.
La legge francese 2017-1510 è stata emanata il 30 ottobre del 2017 per “rinforzare la sicurezza interna e la lotta contro il terrorismo”. Questa legge traduce in norma comune le misure speciali contro il terrorismo. È un’estensione permanente dello stato di eccezione. Il terzo capitolo riguarda i “controlli nelle zone frontaliere” e il terzo comma dell’articolo 19 legittima i controlli di identità “in un raggio massimo di dieci chilometri attorno a porti e aeroporti che costituiscono dei punti di passaggio frontalieri”. Se nell’area prescritta passa un’autostrada, i controlli possono essere estesi ai caselli vicini oltre il raggio di dieci chilometri. La frontiera è un territorio di eccezione in espansione: essa non corre soltanto lungo i confini, ma cresce a macchia di leopardo all’interno della Francia. Forse in futuro tutto il territorio sarà una frontiera diffusa.
Se la frontiera non è un luogo ma un protocollo di azioni diffuse sul territorio, il confine lineare della mappa cartografica è una rappresentazione obsoleta. Eppure i controlli si concentrano ancora lungo il fiume Roja: la valle è un collo di bottiglia dove intensificare le ispezioni. Non ho parole né modelli per descrivere questa tensione fra la fluidità espansa della frontiera e la sua concentrazione in zone peculiari come il confine. Forse la val Roja è un imbuto frontaliero non perché inizia il confine francese, ma perché finisce quello italiano. Forse le forze dell’ordine francesi sono qui per presidiare il limite dell’Italia, per esaudire il desiderio di espandersi al di là. Ho immaginato che l’espansione sia una pulsione naturale che permea ogni organismo di controllo: sogno della polizia è un mondo senza confini. Secondo El Pais Juncker avrebbe avuto intenzione di annunciare – in occasione del discorso dello scorso 12 settembre – una polizia di frontiera comunitaria. Una polizia europea dovrebbe annullare i conflitti che nascono dalle diverse competenze nazionali, rendendo più efficaci controlli e respingimenti. Finché permangono le attuali norme, i conflitti frontalieri fra governi sono utili a chi desidera passare: la disarmonia fra polizie nazionali è madre di pertugi. Questo è uno dei paradossi della frontiera.
Adesso è ottobre alla stazione di Menton Garavan, l’estate è così lontana. La polizia francese setaccia i treni in arrivo da Ventimiglia, sono sei gli agenti in azione. Due poliziotti scendono dal primo vagone e fanno segno ai colleghi: la mano traccia un due nell’aria, «Deux ici!». Poi si riuniscono e dicono fra loro nomi di paesi lontani: «Maroc, Iraq, Tunisie, Algerie, Maroc encore». Arriva un nuovo agente con un furgone, apre i portelloni e urla ilare e guascone: «Allez-y, l’Italie est jolie!». Gli altri poliziotti bighellonano intorno a un secondo furgone: uno seduto al posto di guida, uno con le mani sul capo, uno gioca con un mazzo di chiavi, uno appoggia il gomito alla portiera.
Ero qui, alla stazione di Menton Garavan, anche nel 2015 e osservai comportamenti analoghi. Da tre anni esploro la valle e ora posso provare a tracciare una storia recente dei controlli. Nel 2015 – era l’anno dell’accampamento informale ai Balzi Rossi, sugli scogli – i posti di blocco delle forze dell’ordine francesi erano stati organizzati presso la frontiera alta e la frontiera bassa; i treni da Ventimiglia erano controllati a Menton Garavan. I treni della linea Ventimiglia-Cuneo non erano sorvegliati e le strade della valle interna erano libere. Ancora nel 2016 i posti di blocco si limitavano al tratto costiero, addirittura quell’anno il confine di ponte San Luigi era sguarnito. Allora credevo che i controlli di frontiera fossero uno spettacolo: un’esposizione della forza dello stato, più un atto simbolico che una misura d’impedimento. Perché nel 2017 sono stati organizzati presidi e posti di blocco nell’alta val Roja? E perché soltanto due anni dopo gli attentati di Parigi e le conseguenti leggi speciali? Mi domando se l’inasprimento della sorveglianza non sia dipeso dal clamore scatenato da Cedric Herrou, il contadino francese di Breil-sur-Roya che ospita i migranti nel suo uliveto e fornisce loro supporto. Herrou è stato arrestato per la prima volta nell’agosto 2016 e nell’ottobre dello stesso anno ha occupato la stazione di Saint Dalmas-de-Tende. Il 2017 è stato l’anno dei processi contro Herrou e degli articoli di giornale, del risveglio delle coscienze civili e delle polemiche. Da allora Breil-sur-Roya è l’epicentro delle ispezioni poliziesche; quest’estate un’amica mi raccontava che le guardie a pranzo sono la fortuna dei ristoratori del villaggio. Forse le azioni di Herrou – volte a gettare luce sulle contraddizioni della frontiera con mosse eclatanti, pubbliche e visibili – hanno attirato l’attenzione, dunque i controlli. La frontiera è una ambigua mistione fra pratiche di deterrenza e propagazioni spettacolari.
Chi desidera opporsi al meccanismo frontaliero può favorire la violazione dei controlli, oppure può denunciarne pubblicamente le ingiustizie. Queste due pratiche – la contravvenzione segreta, la contestazione pubblica – sono coerenti per il dispiegamento di un pensiero critico. Esse però sono pragmaticamente in contraddizione l’una con l’altra: la contestazione della frontiera richiama l’attenzione mediatica; il supporto ai passaggi celati deve avvenire senza manifestazioni. Le due pratiche non possono essere compresenti in un medesimo spazio-tempo, e questo è il secondo paradosso della frontiera. In terra di passaggi – dove la Roya diviene il Roja – bisogna ponderare con attenzione i gesti e le parole per orientarsi fra i versanti del visibile e dell’invisibile, del rumore e del silenzio, delle luci e delle ombre. Questo paesaggio m’invita a esplorare le possibilità delle allusioni, del parlar figurato e della criptografia. A scuola ci chiedevano: che cosa ha voluto dire qui l’autore? Ora la mia domanda è: che cosa l’autore ha voluto non dire?
I gendarmi tengono il posto di blocco alla frontiera bassa lambita dalle onde del mare. Sento odore di alghe in fermentazione e il malessere in questo autunno è meno amaro. Le auto passano sotto lo sguardo stanco delle guardie. Oltre il posto di blocco, sul lato italiano, ci sono tre militari e due poliziotti che stringono un cerchio. «O Ventimiglia, o prigione. Prigione vuoi?», dice una voce fra la soldataglia. Ascendo verso la frontiera alta. Ponte San Luigi è presidiato dalla polizia francese, ma oggi noto qualcosa di strano. Ci sono transenne in mezzo alla strada, un divieto di transito. La via è chiusa perché un masso s’è staccato dalla montagna ed è caduto sulla carreggiata. Rammento L’angelo di Avrigue, il primo romanzo di Biamonti: una storia dove tutto il creato – i viventi e le cose – cade greve, frana al suolo. «Hai sentito? Un giovane è caduto dalle rocche di Crairora», dice una voce all’inizio. L’Europa m’appare ora terra di crolli e di guardie. (testo di francesco migliaccio / disegni di simone perazzone)