Oscar Romero non è un fenomeno, ma un buon calciatore. Paraguaiano, ha avuto un’esperienza poco felice in Spagna, poi ha girato un po’ tra Argentina e Cina. Nel 2021 ha rescisso il contratto con il San Lorenzo, ha firmato con il Boca Juniors e ha guidato la squadra alla conquista del campionato, con la numero dieci di Maradona e Riquelme sulle spalle.
Sono le due e mezza di pomeriggio quando tiro fuori dall’armadio la sua maglia fresca di scudetto e scendo in strada alla ricerca dei duemila argentini (circa un quinto del totale dei residenti nel nostro paese) che sono arrivati dalle altre città d’Italia per vedere la finale del mondiale a Napoli, la patria adottiva del loro idolo Maradona. Già da qualche giorno i tanos avevano fatto girare la voce via social: se si va in finale, la si vede tutti insieme a Napoli! Non è bastato, però, al Comune per allestire il maxischermo che era stato chiesto, perché “la richiesta è arrivata troppo tardi” (ma l’Argentina si era guadagnata la finale solo martedì 13!). Fin dalla mattina, così, gruppi di centinaia di tifosi e tifose, con le maglie della nazionale, del Boca e del Napoli, hanno cominciato ad aggirarsi per la città alla ricerca del posto migliore per guardare la finale con la Francia. Finché non l’hanno trovato.
Alle tre parcheggio il motorino a pochi metri dalla redazione di Monitor e dall’adiacente murale gigante che rappresenta Maradona, diventato luogo di pellegrinaggio profano per tifosi, calciatori, allenatori, turisti di tutto il mondo. Il murale dei Quartieri Spagnoli fu dipinto da Mario Filardi, ventenne, dopo il secondo scudetto del Napoli con l’aiuto di altri giovani “quartierani”, per lo più appartenenti al gruppo ultras delle Teste Matte. Mario ci lavorò senza sosta per tre giorni, scendendo dall’impalcatura solo per andare a riposare di tanto in tanto. Scoloritosi negli anni, il murale è stato restaurato nel 2016 per iniziativa di Salvatore Iodice, falegname-artista dei Quartieri, e poi rifinito da un altro artista, l’argentino Bosoletti. Mario Filardi non ha potuto vederlo: era morto a Zurigo (dove era emigrato) sei anni prima.
Per noi redattori di Monitor il restauro del murale e la sua consacrazione a luogo di culto non sono stati un grande affare. Abbiamo perso la possibilità di parcheggiare il motorino di fronte la porta d’ingresso, di fermare l’auto al centro della strada per scaricare scatoloni con libri e riviste, e tante altre piccole comodità. Negli ultimi due anni, dopo la morte di Maradona, il cortile su cui si innalza il dipinto si è trasformato da scalcagnato parcheggio per le auto dei residenti a luogo d’attrazione capace di convogliare migliaia di persone ogni giorno. Sono spuntati due bar mangia-e-bevi, bandierine di tutti i paesi del mondo sono state appese tra un palazzo e l’altro, sono aumentati i paletti per non far parcheggiare passanti e residenti, e all’interno dello slargo è nato un fruttuoso commercio di gadget maradoniani di ogni forma, colore e dimensione. Mentre osservo la folla ripenso a una vecchia intervista in cui Maradona confidava a Gianni Minà il suo orgoglio per il fatto che tanti napoletani riuscissero a sbarcare il lunario vendendo paccottiglia legata alla sua immagine («Ma se lo fa il miliardario no, questo non lo sopporto proprio!»). A gestire queste attività, in effetti, non sono brand internazionali e locali, ma due-tre famiglie che vivono da sempre nei paraggi (forse per questo la Guardia di finanza si è di recente adoperata per effettuare un mega-sequestro, celebrandolo con una foto grottesca in cui due finanzieri posano orgogliosi davanti a un tavolo pieno di magliette del Napoli, che se non ci fosse il logo delle Fiamme Gialle sembrerebbe una bancarella in un pre-partita qualsiasi).
A dispetto dei sequestri, però, oggi l’attività nel ribattezzato Largo Maradona è frenetica. La vendita di magliette e birre va a gonfie vele e almeno due-trecento tra argentini e napoletani cantano sventolando bandiere e parlando uno spagnitaliano molto musicale. Quando mancano venti minuti all’inizio della partita arriva una volante della polizia. Gli agenti scendono ed entrano nel piazzale. Parlano con i venditori di magliette, accusandoli di aver bloccato il quartiere, ma loro rispondono di non avere colpe: hanno fatto tutto gli argentini! Dopo una decina di minuti la pattuglia se ne va via impotente.
Se prima del fischio di inizio i cori erano tutti per Maradona, per l’anziana donna Assunta affacciata al balcone del secondo piano («abuèla, aaabuèla» cantato sulle note di Zazueira di Astrud Gilberto) e per Mara Venier, che compariva e scompariva dal mini-maxi-schermo autorganizzato, con l’inizio del match le ovazioni diventano per Messi e Di Maria, el hombre de las finales, schierato a sorpresa dal tecnico argentino, nonostante le condizioni fisiche non perfette. I due si giocano l’ultima possibilità della loro trionfale carriera di vincere un mondiale, e approcciano la partita in maniera devastante, così come Mac Allister ed Enzo Fernandez, centrocampista ventunenne del Benfica che – mi dice Lucio, un signore di Cordoba che assomiglia a Luis Borges – «pinta fútbol como Redondo». La Francia è alle corde, l’Argentina domina e l’entusiasmo è alto. Al minuto ventitré l’arbitro assegna un rigore ai sudamericani, Messi trasforma: uno a zero.
(video di redazione napolimonitor)
Dopo tredici minuti la folla esplode ancora al raddoppio di Di Maria e con l’arrivo dei tamburi il coro simbolo di questo mondiale, Muchachos, risuona ossessivamente (i tamburi non sono argentini, ma della Murga di Scampia accorsa per l’occasione) come fossimo alla Bombonera.
Il secondo tempo sembra per più di mezz’ora un conto alla rovescia per la festa finale. La partita non la guarda più nessuno – se non alcuni ragazzi che sbirciano dalla finestra di una casa al pian terreno – perché la celere è venuta a mostrare i muscoli e a rovinare la festa, interrompendo la proiezione per “motivi di sicurezza”, sperando di far defluire la folla. Naturalmente nessuno va via e si decide di fare a meno delle immagini, procedendo sull’onda dell’emotività. Quando i canti e i balli si interrompono, così, è perché si è sparsa la voce che nel giro di due minuti il fuoriclasse francese Mbappe ha riportato il risultato in parità.
Da quel momento succede di tutto: tempi supplementari, gioia, disperazione, nuovo vantaggio con Messi, pareggio ancora con Mbappe, una parata dell’argentino Martinez che ha del soprannaturale e poi i rigori stravinti dalla formazione sudamericana, che si porta a casa la tercera, la Coppa del mondo numero tre della propria storia.
Finita la gara è confusione totale. Napoletani e argentini cantano insieme per le loro squadre, cori in italiano e spagnolo si alternano, cordoni di polizia tentano di disciplinare il caos invano, mentre la gente salta e urla scomposta a pochi centimetri dai volti degli agenti. Vorrei salutare Lucio, non riesco a trovarlo. Prima del fischio di inizio mi aveva detto che quando il Boca vince il campionato e l’Argentina il Mondiale, anche a Napoli a fine anno arriva uno scudetto. In realtà si sbaglia, perché nell’87 il campionato argentino lo ha vinto il Rosario Central, ma questo non importa a nessuno. Ciò che conta è il verdetto: l’Argentina è campione del mondo e Lionel Messi è ufficialmente il calciatore più forte della storia del calcio. Maradona, non solo per i venditori di magliette, sciarpe e calamite, fa parte di tutta un’altra classifica. (riccardo rosa)