Castellammare di Stabia era uno dei più importanti centri di costruzioni di navi al mondo. Il cantiere è fermo da due anni e gli operai sono in cassa integrazione, in attesa di risposte per il futuro. Ieri, in occasione della presentazione del piano industriale, l’amministratore delegato di Fincantieri Bono ha sentenziato: il cantiere di Castellammare verrà chiuso. Da Napoli Monitor n. 41 , maggio 2011
È mattina presto, parto dall’entroterra. In direzione della costiera la strada diventa un tracciato di linee gialle e le macchine sbucano da destra all’improvviso. Oltrepasso la zona industriale dismessa, con quell’odore perenne di nafta. Intravedo i serbatoi di stoccaggio, i container accatastati, le gru della zona portuale, prima che il paesaggio non cambi definitivamente lungo le sopraelevate e le segnaletiche esclamative. Alcune uscite autostradali verso sud sono chiuse per i lavori in corso. San Giorgio, Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata sud, Torre annunziata nord, Pompei. La cinta vesuviana attraversa interi quartieri sovrappopolati, in passato zone a parte, con il tempo inglobati nell’orbita metropolitana. Passano i chilometri e sei tra le province ostili e rissose, infine città altre separate da tutto il resto.
All’improvviso Castellammare. Qui un tempo l’industria metallurgica teneva impegnati circa diecimila operai, tra la fabbrica dell’Avis, la Meridbulloni e la Fincantieri. Adesso è chiusa pure la fermata della Vesuviana che porta ai cantieri navali. Varcare la soglia della città è come entrare nel barattolo di una marmellata di cemento, con quel sapore noto e quella percezione sottile di polvere spalmata nell’aria, sempre uguale da Marcianise ad Aversa, da Fuorigrotta a Quarto, da Frattamaggiore a Bagnoli, da Casavatore a Giugliano. Eccoci davanti al ritratto contrariato del vulcano all’opposto di quel golfo da cartolina. Il mare come unico sfogo possibile insieme al vento. I cittadini passeggiano nella villa comunale salutandosi tra loro. Ho seguito le indicazioni che mi ha dato Rosario al telefono: «Esci dall’autostrada, vai verso il lungomare. A un certo punto gira alla prima a sinistra e vai sempre dritto oltre la piazza. Sulla destra trovi il Circolo, entra e chiedi di Cirasell».
C’è un po’ di gente fuori. Rosario è impegnato a raccogliere i ticket da distribuire alle famiglie degli operai. Aspettiamo all’interno, gironzoliamo per l’edificio, ci affacciamo ad ammirare il panorama dall’alto. Tutto mare, il vulcano davanti simmetricamente diverso, qualche pescatore, la banchina desolata e i cantieri navali che non fanno alcun rumore. Il gestore del bar, Giggino Schiaraiuorno, mentre spazza per terra dice che a vederli così si sente moralmente morto. Rosario ci raggiunge e ci avviamo sul lungomare con calma. Ci sono altri operai del cantiere che pure passeggiano, portano i figli a spasso, discutono con quelli che incontrano sulle ultime novità, sulle prossime proteste, sui recenti blocchi stradali. Rosario ce li presenta, loro subito cominciano a parlarci con quell’ansia di chi vuole spiegare per filo e per segno come stanno le cose. Ma da dove vogliamo cominciare? Stiamo parlando con gli operai dei cantieri navali più antichi del paese, tra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Due anni fa l’ultimo varo, da allora nessuna commessa. Un altro spinge la carrozzina con una bambina che dorme beata, si ferma, ha un accento che è una carambola di parole avvolte una sopra l’altra. Con tenue fierezza racconta che a Castellammare un tempo c’erano i migliori maestri d’ascia d’Italia, come quelli che costruirono la corvetta Stabia nel 1786, il vascello Guiscardo, il brigantino Intrepido. Pure il vascello Monarca da settanta cannoni e il cacciatorpediniere Ardito sono stati costruiti qui, insieme alle altre navi militari. Ma il vanto di ogni tuta blu resta il veliero Amerigo Vespucci, la regina dei mari varata nel febbraio del ‘31, di cui l’amico di Rosario si sforza di ricordare il motto…
A Rosario, trentadue anni, operaio Fincantieri in cassa integrazione da circa sei mesi, tutti lo chiamano Cirasell da quand’era piccolo perché aveva sempre le guance rosse come due ciliegie. Rosario ha iniziato a lavorare nei cantieri navali di La Spezia a diciannove anni. Ha imparato il mestiere nei tre anni successivi e si è fatto le ossa in un cantiere privato di piccoli pescherecci a Pietra Ligure. Ha lavorato a Genova, a Venezia, passando per la trafila del pendolare che ogni settimana torna a casa. Dopodiché ha fatto la domanda in Fincantieri, è rimasto un anno disoccupato ed è andato a lavorare a nero nei cantieri navali di Ancona. Quando è tornato a Castellammare ha seguito il corso e nell’ottobre del 2000 è entrato a far parte della grande famiglia. Ci sediamo su una panchina. Sole e occhiali scuri, saracinesche dei negozi abbassate. Stavolta qualcuno passeggia sulla sabbia, indossa una maglia con sopra scritto “Manteniamo l’arenile pulito”: è uno degli operai che si è messo a pulire la spiaggia palmo a palmo, una sorta di sciopero alla rovescia, ricevendo la solidarietà di tutta la cittadinanza, dai piccoli commercianti agli ultras della Juve Stabia.
Partiamo dalla fonte, l’acqua di fonte: «Ne hai mai sentito parlare? L’acqua della Madonna, l’acqua Acetosella. Una volta di queste te le porto a vedere, ti vai a fare una bella bevuta d’acqua!». Ma la situazione è troppo sospesa per venirne a capo e la questione parte da lontano. Per non parlare del fatto che la ferita è tuttora aperta. Si accenna qualcosa sul futuro, questa dannata incognita che desta facili battute. Il lavoro, l’aria che si respira in città, la guerra fra i poveri, gli scioperi, le rivendicazioni, la Juve Stabia che ha battuto la Nocerina e il progetto di rendere Castellammare un porto turistico.
Rosario è cordiale, sente la pressione addosso come gli altri suoi compagni in cassa integrazione, non si ferma mai pure se resta seduto e mentre parla gli si gonfia una vena del collo. A Castellammare più o meno si conoscono tutti quanti. Passa un conoscente, lo saluta, ne passa un altro, saluta anche quello, poi riprende il filo del discorso e i pensieri sembrano sfuggirgli tra le mani. Una situazione così difficile dice di non averla mai vissuta prima: «Io sono partito come molatore. Ma era un mestiere di merda a stare con la mola in mano. Volevo imparare a saldare, sentivo dire che il saldatore costava molto più del molatore. Il molatore prendeva diecimila lire l’ora, il saldatore se era capace prendeva pure ventiduemila lire. Quando sono entrato nei cantieri ho fatto il corso come allestitore navale. Ho avuto la soddisfazione di montare le scialuppe di salvataggio e le gru del carico da sessanta tonnellate sulle Grimaldi… Noi la notte non ci sogniamo di montare gli sportelli alle auto come alla Fiat, però ci stanno dei ragazzi che fanno lo stesso lavoro tutti i giorni. È diverso dal mio lavoro. Io mi occupo di corrente provvisoria. La nave man mano che viene costruita non ha la corrente sua ma viene allacciata alla corrente che abbiamo in banchina, e così illuminiamo tutte le zone per permettere la lavorazione. Io vado avanti e indietro nella nave per cercare le anomalie del mio impianto».
Per rendere l’idea Rosario spiega che «è come costruire un palazzo, solo che poi va per il mare». Fino a dieci anni fa c’erano le commesse, al cantiere s’incontravano duemila persone ogni mattina. «Ma non è che Fincantieri ora sta passando questo momento perché non siamo stati bravi a costruire le navi. Non esiste. È la crisi globale. I cinesi e i coreani… loro costano ottanta euro al mese e noi costiamo mille e trecento euro mensili».
Si avvicina Raffaele, un suo amico che lavora nell’indotto. Anche lui in cassa integrazione. Dice che il suo lavoro è come quello degli spazzini della città. Si occupa di spazzare tutta la nave per mantenere la pulizia, tra le polveri di ferro e la polvere di lana roccia, partendo dai doppi fondi, sotto le stive e senza fiato in mezzo ai materiali nocivi… «Ricordo ancora i nomi delle navi costruite, una a una – continua Rosario – abbiamo fatto cinque Tirrenia, due Grimaldi, due Finlines, le navi che fanno le tratte nei porti finlandesi, poi le ultime della Grimaldi, di quelle che fanno Civitavecchia- Barcellona e la tratta Grecia- Italia… Quando viaggio con mia moglie mi metto a guardare ogni dettaglio. Fa parte del lavoro mio, cioè della vita mia più che del lavoro. Devi considerare che io lavoro in quelle zone anguste che poi vedi cambiare. Tu dal ferro poi vedi il pavimento, la struttura, quel design ultra-moderno e tutte quelle cose… e le guardi talmente stupito che pensi: “Cazzo, hai capito mesi fa com’era tutta sta situazione?”.
«All’inizio mi diedero il compito di montare tutte le antincendio. Mi diedero i disegni e mi dissero cosa dovevo costruire. E lì è nata la passione. Avevo una responsabilità, diciamo così. Il fatto è che ti senti partecipe. La famosa pacca sulla spalla, sai? Che se tu fai un lavoro e quello non ti mette la mano sulla spalla ti viene da dire “Sto stronzo ha fatto il ricchione con il culo mio!”. Invece quando quello ti dice “Bravo” ti senti gratificato. Il nostro mestiere non è facile, tu parti da zero, magari ieri facevi il muratore e oggi ti senti responsabile della costruzione di una nave. Poi nel tempo diventa un fatto familiare. A raccontarla così forse faccio fatica nel lessico, ma viverlo è tutta un’altra cosa. Noi di Castellammare che facciamo parte di Fincantieri ci sentiamo gratificati. Perché è un pezzo della città. L’unico pezzo reale».
È lei a possedere la totalità di ogni immagine. Mentre racconta, Rosario la tiene davanti agli occhi. Questa forma sagomata che si appresta a solcare il mare, che sovrasta le teste dei lavoratori intenti a battere finalmente i cunei a ritmo. Maestranze che pezzo dopo pezzo montano, compongono, assemblano, saldano, colpiscono la castagna col martello da cinque chili sotto la carena e aspettano la forte emozione che si prova al momento cruciale del varo, quel rituale in cui si sparano i fuochi d’artificio e si radunano al molo i padri che rispondono pazientemente ai loro figli, incuriositi da quella stazza che lentamente sbatte nel mare mentre suona la nota monotona della sirena e le onde si propagano inarrestabili. Gli chiedo cosa ha provato quando ha visto la prima nave su cui ha lavorato prendere il largo. «L’ho preso insieme a lei, il largo. Dieci anni fa. Siamo andati in bacino e ci siamo spostati in prova, sono stato in navigazione per cinque giorni a fare i collaudi. Il mio lavoro quando lei se ne va non c’è più. Perché io ho dato alla nave quella luce momentanea di cui aveva bisogno finché non diventava autonoma. Il lavoro mio resta sempre a terra. Però mi sento partecipe interamente della sua costruzione». Dopodiché tutto si ferma.
Come ne I lunedì al sole, il film di Fernando Leon de Aranoa, escono fuori i coreani. La crisi globale, gli armatori che ordinano la costruzione delle navi nel bacino di Yokohama e nei cantieri del porto settentrionale di Dalian, l’indifferenza della politica locale. Si fermano tutti tranne il tempo, che continua a guardare avanti, anche se nessuno sa dire in quale direzione. «Siamo in attesa dei pattugliatori. L’amministratore delegato ha detto che Castellammare non ha bisogno di un bacino di costruzione, perché navi di una certa portata le fanno a Monfalcone. Ma il problema è un altro. Gli armatori se ne sono andati. Adesso vanno trovando gli sgravi per costruire in Italia. Se vedono che una nave costa molto meno in Cina loro vanno dove gli conviene. Ci hanno parlato di questi pattugliatori della Marina da costruire, un lavoro che qualora dovesse iniziare, durerà ventotto mesi ma non per tutti. L’indotto è escluso, e tu devi tenere presente che a Castellammare l’indotto è la maggioranza. Poi non considerare solo l’indotto che viene la mattina dentro il cantiere. Pure il salumiere che fa la merenda fuori al cantiere è un indotto. Solo in un bar ci lavorano sei sette persone. Nella salumeria ci lavorano tre famiglie. Cioè qua si parla di un’economia che si è proprio fermata. Nell’ultima manifestazione i commercianti hanno tenuto le saracinesche chiuse per solidarietà verso gli operai di Fincantieri. Alle Terme non si sta raccogliendo niente da quattro mesi e sono trecento lavoratori, noi ne siamo duemila… Cerchiamo di essere solidali con quelli dell’indotto che per vent’anni sono stati sfruttati e poi la Fincantieri se n’è lavata le mani abbandonandoli totalmente. Loro è come se facessero parte di Fincantieri a tutti gli effetti. Castellammare è Fincantieri. Noi vogliamo continuare a costruire le navi».
Mi distraggo a guardare un’altra volta l’arenile e i cantieri, sui quali ruotano le vite, la memoria, il destino e l’esistenza di un’intera città. Per un istante dimentico il luogo in cui mi trovo, come quando ti svegli di soprassalto. Sulla strada di ritorno, mentre penso al ritratto di Rosario, incontriamo il suo amico con la carrozzina. Gli era venuto in mente il motto dell’Amerigo Vespucci, ce l’aveva sulla punta della lingua: “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”. (andrea bottalico)