Alessandro Portelli, professore di letteratura angloamericana alla Sapienza di Roma, ha parlato di storia orale e di Studs Terkel in occasione di “Chi racconta la città”, la rassegna sul fare inchiesta organizzata dal nostro giornale. Eccone una sintesi
Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il momento di riflettere sul come e sul perché. È ciò che Napoli Monitor ha provato a fare nella settimana di incontri dal titolo “Chi Racconta la Città”, dal 14 al 19 marzo in vari luoghi di Napoli. Uno dei nostri ospiti è stato Alessandro Portelli, professore di letteratura angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale. Approdato da giovane negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni, raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui: rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre che nei numerosi volumi già pubblicati, trova oggi sistemazione nell’ultimo suo libro uscito per Donzelli Editore, America Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe – leg work in gergo – non l’ha stancato, e a noi è venuto a raccontare come sia possibile unire gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera, pubblicando libri letti da generazioni. In una giornata piovosa di marzo, nel chiuso dell’aula magna della facoltà di sociologia, con le alte pareti che amplificavano i suoni, questo è ciò che ci ha detto.
«Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo. Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce.
«La voce comporta un elemento di relazione con il tempo e con la performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di ascoltare.
«Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la sensazione che il leader del KKK non sia un mostro come persona, cosa che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello che abbiamo in comune con il leader del KKK, quindi ci dice anche “stai attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la capacità di accettare l’altro, nel senso di riconoscerne la presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire. Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro.
«Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard Times, Terkel cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente, il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael Frisch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel non sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti quasi lirica, tant’è vero che è stato trasformato in un musical, e James Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone.
«La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione, di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te che racconti e quello che ti ascolta.
«Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione. Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione, e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto, cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza.
«Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare le metafore per fare storia. Il teorico Hyden White dice: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle cose che non conoscono. E sul lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai veramente verbalizzato. E le descrizioni che io mi metto a fare della colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora non si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera, intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo.
«Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo: tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco di buono. Però che lì ci fosse una tradizione di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che continuavo ad andarci – sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? E mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso che parlava italiano ma che aveva avuto esperienze politiche e culturali meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti. Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in grado di scrivere niente.
«Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Studs Terkel intervista sia persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce, ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni ternani che avevo intervistato non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia ma era diventato un racconto condiviso, comune». (napolimonitor)
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