È uscito in periodo di campagna elettorale per le elezioni a sindaco di Castellammare di Stabia il libro del giornalista Matteo Cosenza (Il compagno Saul, Rubbettino Editore). L’autore, nato a Castellammare e ritornato in città dopo trent’anni, direttore del Quotidiano della Calabria e candidato alle scorse elezioni per una lista civica sostenuta da coloro che, oltre a vedere in lui una persona onesta, evidentemente non potevano tollerare l’idea di un candidato Pd nipote del democristiano Antonio Gava, rende un doveroso tributo alla memoria di Saul Cosenza, suo padre, operaio del Cantiere Navale e membro del comitato centrale del partito comunista negli anni in cui Castellammare rappresentava la proiezione delle battaglie politiche a livello nazionale. Una sorta di laboratorio sociale in cui le lotte operaie erano appoggiate (o forse tenute a bada?) da un partito radicato e forte, alle prese con il potere dei democristiani di Gava, appunto.
La storia diventa, pagina dopo pagina, un’intensa apologia e un’appassionata biografia scritta con accurata sensibilità, ma non aspira a entrare troppo nel merito delle vicende, che piuttosto servono a tenere in piedi l’impalcatura del racconto, funzionali alla vita del compagno Saul: il suo retroterra, l’origine, il “battesimo” dei masti nel Cantiere, la cultura cattolica in contrasto con la scelta di aderire al partito, i legami, gli aneddoti, i ricordi. E poi naturalmente il partito, i “grigi compagni”, non la sua base fatta di operai senza nome. In primo piano c’è la vita di un protagonista degli avvenimenti che abbracciano sessant’anni di storia della piccola città, dall’assedio di piazza Spartaco (Saul era figlio di un socialista coinvolto nella difesa del municipio assediato dai fascisti nel gennaio del ’21) fino al terremoto dell’Ottanta. Il libro si ferma proprio all’inizio della fine, anche perché Saul morirà pochi giorni dopo il terremoto.
L’autore fornisce il ritratto di un uomo capace di guardare avanti, innovatore, di umili origini, lavoratore orgoglioso che non ha mai voluto lasciare il suo posto tra i calafati e che, con la sua lungimiranza, è stato capace di svecchiare un partito ancorato a una mentalità segnata dalla guerra, trasformandolo, aprendo le porte alle nuove generazioni. È importante conoscere ciò che è stata Castellammare da questa prospettiva. Ciononostante, all’autore interessa rendere onore alla memoria del padre, alle sue virtù politiche, ai suoi pregi, al suo carisma confermato da tutti quelli che ne conservano il ricordo. Necessità legittima, che purtroppo è caratterizzata da un tono ridondante e nostalgico, nel quale il protagonista, di certo una figura di spicco nella storia politica di Castellammare, appare quasi come un predestinato. Certo, è il figlio a parlarne, un figlio che deve tanto alla figura del padre, un figlio andato via e ritornato con l’idea di candidarsi a sindaco in una città paralizzata, uscendone ovviamente sconfitto – probabilmente era l’unica persona degna tra i vari candidati, ma questa è un’altra storia.
Un tempo terza città industriale della regione e oggi assediata da un tasso di disoccupazione tra i più alti in Italia, di quel passato a Castellammare non resta altro che un malinconico ricordo tra i pochi, ancora vivi, che l’hanno vissuto. Il libro di Cosenza poteva essere una buona occasione per fare i conti con il passato invece di mitizzarlo attraverso il ritratto di un padre coerente con le sue idee e figlio del suo tempo. Tuttavia ci si ritrova a leggere i ricordi con quel tono di autoindulgenza che emoziona i veterani. Mentre a Napoli c’erano Caccioppoli, Francesca Spada, Lapiccerella, Cacciapuoti e lo stalinismo oppressivo così ben raccontato da Ermanno Rea in “Mistero Napoletano”, cosa accadeva a Castellammare? La coscienza politica emergeva dalla conflittualità in fabbrica, la classe operaia di allora era anche classe dirigente, esisteva un’etica del lavoro di cui adesso si è quasi persa la traccia. Il Cantiere Navale forgiava uomini degni, disposti a subire umilianti persecuzioni sul posto di lavoro per un ideale, uomini che ci credevano veramente, come lo stesso Saul Cosenza (se fosse stato uno stalinista o meno, l’autore lo chiarisce in pochissime righe, quasi giustificandolo). Poi c’è stato il terremoto, il ricatto democristiano nei confronti dei lavoratori, i morti ammazzati, la smobilitazione sistematica dell’apparato produttivo, la corruzione, la compravendita delle assunzioni alle nuove Terme e nel Cantiere Navale, il deterioramento dei sindacati, l’infiltrazione dei clan al comune e nei partiti. Anche a sinistra.
Del sindaco uscente, un ex magistrato, sarà memorabile il goffo tentativo di combattere l’illegalità nei soliti termini formali, come l’impedimento alla tradizionale processione del Santo patrono di fermarsi a rendere omaggio al piccolo santuario della Madonna dei marinai, convinto che la processione in tal modo rendesse onore a un vecchio boss residente di fronte al Santuario. Anche questa è un’altra storia? Forse sì, ma è qui che la narrazione conduce. Da quel passato a questo presente, nel quale l’autore ha scelto di candidarsi. Nella parte finale, l’autore ripropone la domanda retorica posta da Antonio Barone alla fine di un articolo sulla figura di Saul Cosenza, scritto dopo la sua morte: “E dunque, per finire, quale altro testone come Saul, quale altra inflessibile razionalità, qui e ora, al servizio del sogno di una cosa?”. Forse si pretende troppo da una biografia, eppure, per tale ragione questo libro sembra strumentale alla campagna elettorale e s’inserisce tra i libri consolatori su un passato mitizzato che ammicca a un presente vuoto. Sarà anche vero che chi non ha passato non ha futuro, parafrasando le parole di Annibale Ruccello usate da Luigi Vicinanza nella prefazione, ma è pur lecito affermare che chi non fa sinceramente i conti con il proprio passato difficilmente può tentare d’interpretare il presente, quanto meno cercare di capirlo o proporsi per amministrarlo. Ed è infatti questo il problema di fondo: invece di svegliarsi da un sonno che dura da circa quarant’anni, si continua a dormire, e a sognare indisturbati “il sogno di una cosa”. (andrea bottalico)
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