Forse le sedi Rai di Mosca e Nairobi ce l’hanno fatta, rimarranno in piedi con i loro corrispondenti. L’hanno dichiarato ieri i rappresentanti sindacali dell’Usigrai nel mezzo di una trattativa che si trascina ormai da giorni. Ancora in bilico Madrid, New Delhi, Beirut, Istanbul e Buenos Aires, vista l’approvazione di nuovi tagli milionari a corrispondenti e trasferte. Intanto è un mese che ha chiuso ufficialmente la Rai Corporation di New York, con tanto di asta per tutti i beni della società fondata nel 1960 – che aveva sedi anche a Los Angeles, Montevideo e in Canada, tutte ugualmente chiuse. Non solo le apparecchiature: tra i beni della società in vendita c’era anche l’archivio audiovisivo, più di cinquant’anni di riprese girate nel continente americano che riempivano stanze intere di scaffali nella sede di Manhattan. I dipendenti continuano a protestare, ma gli unici a salvarsi per il momento sono i corrispondenti dei tg e alcuni montatori, assorbiti dall’Associated Press tv insieme a parte delle attrezzature. Epilogo sintomatico di una sede da sempre utilizzata come finestra di rappresentanza, con una gestione in cui sprechi e esternalizzazioni sistematiche avevano ormai del tutto messo in ombra il lavoro delle troupe sul campo. In attesa di sviluppi (dell’interpellanza del sindacatoUsa dei lavoratori tv al National Labor Relations Board, e delle due interrogazioni parlamentari presso la Commissione di Vigilanza Rai) riproponiamo un racconto della Rai Corporation come appariva tre anni fa agli stagisti, ultimi arrivati in una scala gerarchica fondamentalmente fine a se stessa.
da: Napoli Monitor N°29 / Gennaio-Febbraio 2010
Le notizie arrivano spesso già pronte, preconfezionate. Basta pagare un abbonamento a fornitori come CNN o CBS per avere un flusso costante di immagini, interviste, persino approfondimenti, da riutilizzare a piacimento. È vero che l’inviato è sempre pronto, se serve, a improvvisare una diretta in dieci minuti o correre in sede alle quattro di mattina. Ma è pur vero che, per lo meno nel caso della Rai di New York, il lavoro si riduce per lo più a un attento monitoraggio delle agenzie di stampa e degli altri media, americani e italiani. Se Repubblica o il Corriere pubblicano sul loro sito una storia dagli Stati Uniti – per esempio nell’onnivora categoria delle “curiosità” – i corrispondenti Rai da New York non possono rischiare di bucare.
Ovviamente, come si può toccare con mano transitando nella sede di New York anche solo per un tempo limitato, da stagista, ognuno dei tre telegiornali Rai ha la sua tipologia di notizie e di corrispondente. Il Tg1 sfodera il sempreverde Giulio Borrelli: reporter d’altri tempi, rifà una ripresa all’esterno anche dieci volte se scopre di avere un solo capello fuori posto; misterioso e guardingo, fa spesso cancellare i suoi servizi non appena sono andati in onda, per paura che altri possano utilizzarli. Star del Tg2 è invece Gerardo Greco, maestro delle pubbliche relazioni. Estroverso e rumoroso, è sempre attorniato da collaboratori e ospiti: se c’è bisogno di trovare un lavoretto a qualcuno, se ci sono i bacucchi dell’associazione italiana della stampa in visita ufficiale, se i parenti degli amici vorrebbero tanto visitare la sede, l’ufficio di Gerardo è sempre aperto. Per il Tg3, infine, a New York c’è Giovanna Botteri. Dopo essersi fatta le ossa nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq e ovunque ci fosse qualche tragedia da raccontare, Botteri è approdata al culmine della carriera negli Usa, ma sembra essersene stancata presto – tranne che del Presidente. Autoriaria e cinica, ma con un senso della notizia ormai istintivo e una capacità di improvvisazione non comune, circola nell’elegante ufficio in jeans – unica tra tutti gli esemplari femminili, fatta eccezione per qualche stagista – e perenne pinza nei capelli, da togliere solo pochi minuti prima della diretta, per improvvisare una pettinatura da prima serata con qualche sapiente tocco di spazzola e bigodini.
A chi arriva come stagista, la prima cosa che viene chiarita è che non potrà fare niente, perchè i sindacati a cui sono iscritti i producer, ovvero gli assistenti dei giornalisti, non permettono che qualcun altro possa fare il loro lavoro gratis. Ovviamente, chi prima chi dopo, tutti gli stagisti in realtà trovano un modo per inserirsi temporaneamente nell’ecosistema della Rai Corporation, la società che si occupa di produrre e distribuire i prodotti Rai negli Stati Uniti. Ma l’ingranaggio può rivelarsi piuttosto spinoso. «Devi capire che il giornalista si sfoga sul producer, che a sua volta si sfoga sul montatore; tu, come stagista, sei l’ultima ruota del carro, quindi cerca di fare attenzione a come ti rivolgi ai montatori che sennò ci vai di mezzo», mi spiega con serenità zen una stagista del turno precedente. Il meccanismo non è ineluttabile, ma bisogna guadagnare la stima dei tecnici, che fanno squadra tra loro e rimangono i veri pilastri dell’ufficio, mentre intorno a loro ruotano periodicamente giornalisti e producer. Peggio degli stagisti, che hanno zero importanza ma anche poche responsabilità, se la passano forse solo i producer: strapazzati dai giornalisti e spesso poco stimati dai tecnici, sono anche i più precari dal punto di vista contrattuale. A differenza dei producer americani, che sono giornalisti a tutti gli effetti, quelli della Rai di New York in molti casi sono stati scelti solo per la cittadinanza italo-americana, anche senza nessuna esperienza come giornalisti.
Il Tg1 e Tg2 confezionano in genere uno o due pezzi al giorno; solo il Tg3 aggiunge non di rado anche un pezzo per la radio e una diretta per il Tg della tarda serata – ma l’iniziativa è lasciata al singolo giornalista. Ognuno comunque procede a modo suo: c’è chi pianifica tutto con largo anticipo, chi chiede agli assistenti e persino agli stagisti di cercare le notizie e scrivere i pezzi, chi fa invece tutto da solo e giusto mezz’ora prima di andare in onda dice al suo staff di che immagini ha bisogno – tra quelle mandate da CNN o CBS, quelle in archivio, o talvolta prese persino da Youtube. Spesso è in base alla qualità delle immagini appena arrivate che viene scelto l’argomento del pezzo; altrimenti, solo se la storia proviene da fonti non televisive o da altri canali, ci si arrangia con immagini di repertorio o si manda un cameraman sul posto, se la storia è a New York. «Prima non era così, uscivamo molto di più per strada», racconta un producer. «L’ultimo periodo in cui siamo stati molto in giro è stato per la campagna presidenziale». Per il resto la produzione dice che non conviene pagare le spese di un’intera troupe per andare a coprire una storia dall’altra parte degli Stati Uniti, a meno che non sia una cosa grossa; meglio comprare le immagini girate da altri.
Non che la Corporation sembri essere propriamente a corto di fondi. L’ufficio, da poco trasferitosi al venticinquesimo piano della at&t building, uno dei palazzi storici della città, è quello che si dice una sede di rappresentanza. E i soldi dei contribuenti non sempre sono destinati a nobili scopi, tra rimborsi di cene e trasporti e assunzioni clientelari. D’altra parte, nonostante dal terrazzo della sede si veda il meglio di tutta la città – fiume Hudson, ponti e grattacieli compresi – la Rai Corporation è pur sempre un piccolo pezzo di Italia in America.
Oltre all’ufficio produzione, che ruota intorno ai corrispondenti dei vari telegiornali, c’è Rai International, canale che porta il meglio dell’Italia nei televisori degli americani: ricette di cucina, fiction e il campionato di calcio. La missione di Rai International è quella di comunicare con gli italiani all’estero, partecipando anche a manifestazioni come il Columbus Day, sfilata che ogni anno a New York commemora l’impresa del nostro illustre connazionale e fa rialzare il morale agli italoamericani meno illustri. Alla sfilata di quest’anno c’era sul carro col marchio Rai anche Massimo Magliaro, nuovo presidente della Corporation, entrato nel campo giornalistico come ufficio stampa di Almirante. Qualche giorno dopo la parata, tiene un discorso di insediamento sigillato da spumante e pasticcini, promettendo un rilancio della Corporation in tutte le Americhe. Non tutti però sembrano convinti: «Pare che voglia realizzare nuovi prodotti ancora più commerciali per il mercato americano, per tirare il più possibile dalla pubblicità», sostiene un producer. In attesa di cambiamenti, le giornate scorrono uguali nel piccolo microcosmo dorato dell’at&t building – tra piccole beghe di potere, star dell’informazione, tecnici imperturbabili e stagisti a ricambio trimestrale. (viola sarnelli)