A Milano, la città dove i riflettori non si spengono mai, ogni quartiere sembra costretto a possedere una propria anima e nessuna periferia può più restare desolata. In questa costellazione di quartieri tipici, Ortica e Lambrate vogliono essere tante cose. In tre puntate (qui la prima) cercheremo di scavalcare i numerosi muri che si alzano in questa zona e di capire perché proprio qui stanno in piedi. Fabbriche abbandonate, microcosmi creativi, gabbie per persone senza documenti, lussuose residenze, tantissimi binari, aree vuote per l’uomo ma rigogliose per la natura, sono i protagonisti di questo paesaggio urbano e del nostro racconto.
È passata qualche settimana, ormai, dalle nostre prime passeggiate in quartiere. Ci ritroviamo, insieme, all’angolo di via Trentacoste vicino al sottopasso ferroviario. Sostiamo di fronte a una piccola palazzina di cinque piani dalle ampie vetrate. La targa all’ingresso recita: “Università degli Studi di Milano – Facoltà di Farmacia – Facoltà di Medicina Veterinaria”. Ricominciamo da questo luogo, poiché racchiude un pezzo importante della storia di Ortica e Lambrate, anche se in realtà, ciò di cui siamo alla ricerca non compare da nessuna parte. Non vi è nessuna traccia di quanto è accaduto proprio qui: le mura di questo spazio contengono, pertanto, uno dei più profondi rimossi nella memoria di questo quartiere.
Siamo nella nottata tra il 22 e il 23 aprile 1990, quando in questo edificio scoppia un incendio. Al suo interno abitano informalmente alcune centinaia di persone, le quali sono svegliate all’improvviso dalle fiamme divampate al quarto piano. Le strade si riempiono velocemente di persone in fuga, diverse rimangono ferite. Ainane Mohssine muore cadendo dal quarto piano, mentre tentava con altri di mettersi in salvo. Aveva ventidue anni, era originario del Marocco, vicino Rabat, scrivono le cronache dell’epoca. Il palazzo era stato occupato il 10 febbraio di quell’anno, dopo che un gruppo era stato sfrattato da una pensione nella vicina via Pitteri, dove ciascuno di loro pagava cifre esorbitanti per posti letto fatiscenti. I nuovi abitanti di Trentacoste 2, con il passare delle settimane, erano aumentati fino ad arrivare a circa trecentotrenta occupanti stabili, come dichiarato da loro stessi, in gran parte uomini provenienti da Marocco, Tunisia, Egitto e Senegal.
Milano, quella mattina, scopre tutto d’un tratto quella moltitudine umana, subito percepita come una massa di ospiti indesiderati, a lungo ignorati e tenuti ai margini, divenuti una presenza incalzante con i loro corpi in fuga nella notte su quella strada di periferia. Il palazzo, parzialmente bruciato e inagibile, verrà poi svuotato prima che la magistratura vi apponga i sigilli. Sul posto giungono frettolosamente l’allora rettore della Statale Mantegazza – la proprietà dell’ateneo risale al 1987 – e l’assessore comunale ai servizi sociali Ornella Piloni, espressione del Pci locale. L’amministrazione propone agli abitanti diverse soluzioni abitative temporanee, disperse sul territorio milanese. L’assemblea degli occupanti rifiuta la proposta, avanzando alle istituzioni la propria condizione: “Vogliamo restare tutti insieme”.
Si crea, dunque, una situazione di stallo tra le parti, che si risolve nel corso della giornata, quando il gruppo si muove in corteo verso Lambrate, diretto alla parrocchia San Martino. Il parroco di allora, don Elia Mandelli, si era offerto di ospitare le persone fuoriuscite da Trentacoste, mettendo a disposizione il vecchio cinema parrocchiale nella vicina via Saccardo. Nei giorni successivi proseguiranno le polemiche, insieme al rimpallo delle responsabilità tra i vari attori istituzionali in campo. L’amministrazione, per mezzo del sindaco socialista Pillitteri e dell’assessore Piloni, porta avanti la ricerca di possibili sistemazioni per le persone ospitate in parrocchia. Queste ultime, attraverso assemblee quotidiane, continuano ad affermare che non se ne andranno da lì finché non otterranno una soluzione collettiva. Iniziano così a organizzarsi all’interno del cinema, autogestendo le attività quotidiane insieme alle persone solidali presenti. Nelle settimane successive, si instaura pertanto una semi-occupazione del luogo, poiché la solidarietà del parroco e di parte della comunità locale non viene meno, ma la Curia inizia a fare pressioni sull’amministrazione Pillitteri affinché si trovi al più presto un’alternativa.
La soluzione provvidenziale giunge dall’allora prefetto Caruso, il quale mette a disposizione un’ex caserma militare, allora adibita a deposito, in via Corelli. Ottomila e settecento metri quadrati, che l’assessore Piloni definirà così: “Ci hanno dato calcinacci e muri putrefatti”. Uno spazio enorme, recintato, sotto il cavalcavia della tangenziale, dove vengono trasportati dei prefabbricati per alloggiare i nuovi “ospiti”. Un luogo che verrà denominato informalmente “villaggio degli immigrati”. Le ultime persone lasciano il cinema parrocchiale il 10 settembre, altre si disperdono nella città, mentre il villaggio aprirà nel corso dell’estate.
Dalla facoltà di Farmacia ci spostiamo in una strada isolata, esattamente dietro al microcosmo della Ginori. Intravediamo dalla cancellata le viuzze di quest’altro villaggio. Ci muoviamo verso la campagna, la strada finisce in una curva a sinistra; all’angolo quello che sappiamo essere un Cas (Centro di accoglienza straordinaria), con alcune persone che chiacchierano nel cortile. Imbocchiamo la via che costeggia la muraglia del centro d’accoglienza, di fronte a noi la tangenziale. A un certo punto il muro si alza ulteriormente con dei casermoni dall’altra parte, finiamo davanti a una sbarra, una camionetta dei carabinieri ferma e più avanti due guardiole. È l’ingresso del Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) di via Corelli. È qui che vengono recluse per essere deportate persone la cui unica responsabilità è non possedere un pezzo di carta che permetta loro di soggiornare regolarmente nel nostro paese. Qui venne aperto originariamente il “villaggio”, creando uno spazio di oppressione del quale non ci siamo ancora sbarazzati: le radici di questa storia rimontano fino a quell’estate del 1990.
Tornando a quell’anno, poco dopo l’inaugurazione della struttura di via Corelli, vi fu un altro episodio fondamentale che, insieme all’incendio di Trentacoste, alimentò questa vicenda. All’alba del 25 settembre in largo Murani, alle porte del triangolo ferrato dell’Ortica, una vecchia cascina – denominata Cascina Rosa –, abitata informalmente da circa seicento persone, principalmente originarie del Marocco, viene sgomberata su ordine della magistratura. La stampa dell’epoca racconta di alcuni tentativi di resistenza allo sfratto, messi in campo dagli abitanti insieme ad alcuni solidali del vicino Leoncavallo, in seguito ai quali accorrerà anche l’allora console marocchino, nel tentativo di mediare con i funzionari comunali e le forze dell’ordine. Anche in quella occasione, l’assemblea degli occupanti rivendica una soluzione comune per tutti, sia per coloro che erano in possesso dei documenti che per quanti erano in condizione di irregolarità. L’amministrazione comunale approfitterà della fresca apertura del villaggio di via Corelli, per promettere a quanti in regola un posto letto nell’improvvisato centro d’accoglienza.
Lo sgombero di Cascina Rosa testimonia due fenomeni emergenti in quegli anni: da un lato, l’acuirsi dell’ostilità da parte della popolazione storica verso le varie esperienze di abitare informale sorte in quegli anni, e il conseguente ricorso allo sgombero. Dall’altro, il venire alla luce – sia per la stampa che per l’opinione pubblica – della necessità abitativa per più di tremila di persone emigrate a Milano e senza fissa dimora.
All’interno di questo contesto, il villaggio di via Corelli è ormai operativo. Cominciano allora le proteste di parte degli abitanti dell’Ortica, ostili alla presenza del centro nel quartiere e sostenuti attivamente dall’allora Lega Lombarda. Il villaggio avrebbe dovuto, sulla carta, ospitare esclusivamente persone in regola con i documenti, ma fin da subito è di fatto attraversato e abitato da un numero molto maggiore di soggetti. Le persone vivono all’interno di una serie di container posizionati nello spiazzo vuoto della caserma, baracche di lamiera con scarsi servizi igienico-sanitari, senza alcun impianto fognario, con intorno un perimetro di alte mura. La gestione è affidata a una cooperativa, La Baita, ma di fatto il villaggio viene autogestito attraverso processi decisionali – e dinamiche di potere – messi in campo dalle varie persone che attraversano e vivono quello spazio.
Nel biennio successivo (1991-92), sfumate le polemiche, il villaggio scompare dal dibattito pubblico, mentre si comincia a delineare quella condizione di invisibilità che diverrà poi l’essenza del successivo centro di detenzione. Questo velo di opacità viene lacerato nella primavera del 1993, quando alcuni fatti di violenza e cronaca nera all’interno del villaggio riaccendono i riflettori su via Corelli, in particolare l’omicidio di Mustafa Ainahi, avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 maggio ’93. Meno di un mese dopo, alle elezioni comunali trionfano Formentini e la Lega, i quali avevano promesso lo smantellamento della struttura e l’espulsione immediata di irregolari ed emarginati. La chiusura effettiva avverrà nel maggio ’94, cui seguiranno alcuni mesi di utilizzo informale e occupazione degli spazi della caserma, fino allo sgombero e abbattimento definitivo dei prefabbricati avvenuto alla fine di quell’anno.
A distanza di così tanto tempo risulta difficile tracciare una memoria complessiva di cosa sia stata davvero l’esperienza del villaggio in via Corelli, ponendo al centro le storie delle persone che in quegli anni vi hanno vissuto. Quello che possiamo affermare con certezza, è che in quel periodo si sono iniziati a plasmare due degli elementi chiave di ciò che è tutt’ora la detenzione amministrativa (a questi link due contributi utili del dicembre 2020 e del giugno 2022): l’abbandono sistematico e la gerarchia del merito. Il primo, non casuale, ma organizzato in modo deliberato affinché le persone recluse percepiscano di essere lasciate in una desolazione perenne. La seconda, invece, finalizzata a costruire l’immaginario caritatevole e punitivo del “migrante pericoloso” e della “migrante compassionevole”, figure retoriche ben riassunte nella dicotomia delinquente/badante.
Ci allontaniamo da via Corelli. Ciò che allora fu creato e poi svuotato dalle tendenze sclerotiche dell’amministrazione di turno, adesso è un’enorme gabbia a cielo aperto, un contenitore di corpi tra filo spinato e forze dell’ordine a sorvegliarli. Risaliamo verso il triangolo ferrato dell’Ortica, siamo un po’ spaesati, ci chiediamo cosa ci raccontino queste vecchie storie rispetto a quello che accade oggi. Cosa rimane della solidarietà espressa da alcuni, cosa dell’ostilità nei confronti dell’apertura del centro?
L’incendio in via Trentacoste, lo sgombero di Cascina Rosa, il villaggio, un altro sgombero. In mezzo a ciò i nomi, e le storie dimenticate, di Ainane e Mustafa. Ci guardiamo intorno, oltre al Cpr non c’è quasi più nulla di tutto questo, vicino all’edificio di Trentacoste un’enorme cantiere che farà sorgere uno studentato privato, in Cascina Rosa sappiamo esserci un campus sanitario dell’Istituto Tumori. Ci siamo messi a scavare nei rottami e detriti di quel luogo, sempre raccontato e percepito come slegato rispetto al territorio circostante. Abbiamo scoperto, invece, che la sua genesi si intreccia con le trasformazioni storiche e sociali dei quartieri dell’Ortica e di Lambrate. Quello spazio occultato all’interno della geografia di Milano, dove cercano di far scomparire anche le storie e i desideri di chi è recluso, in realtà ci parla della crisi delle periferie industriali di una città terziarizzata, in cui alcuni luoghi vengono risignificati e riutilizzati seguendo nuove logiche. Ancora adesso, a distanza di più di trent’anni dalla “rinascita” di Corelli, quello spazio di esclusione ribolle con forza, grazie alla resistenza delle persone che vi sono costrette all’interno. Ricostruire questa genealogia ci permette di rompere l’alibi della naturalezza di questi spazi e di oltrepassare l’attuale muro di gomma e indifferenza che li chiude in se stessi, allontanandoli dalla realtà urbana circostante.
Post Scriptum
L’attuale Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli è stato inizialmente aperto, nella sua attuale veste di centro di detenzione amministrativa, l’11 gennaio 1999. L’inaugurazione è avvenuta a seguito di un’intensa campagna mediatica, nella quale il fenomeno migratorio è stato costantemente narrato come un’emergenza per la sicurezza e la città di Milano come ostaggio di una criminalità dilagante. Da allora, il Cpr ha acquistato una sorta di invisibilità, infranta nel dibattito pubblico solo dalle proteste interne e dall’impegno militante di realtà solidali e antirazziste. (giacomo mattiello / barbara russo – continua)
ALTRE PUNTATE
C’era una volta l’Ortica #1 – Come i palazzinari stanno cambiando Milano est
C’era una volta l’Ortica #3 – “Con l’unione di tutti ce l’abbiamo fatta”
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