A Milano, la città dove i riflettori non si spengono mai, ogni quartiere sembra costretto a possedere una propria anima e nessuna periferia può più restare desolata. In questa costellazione di quartieri tipici, Ortica e Lambrate vogliono essere tante cose. In tre puntate cercheremo di scavalcare i numerosi muri che si alzano in questa zona e di capire perché proprio qui stanno in piedi. Fabbriche abbandonate, microcosmi creativi, gabbie per persone senza documenti, lussuose residenze, tantissimi binari, aree vuote per l’uomo ma rigogliose per la natura, sono i protagonisti di questo paesaggio urbano e del nostro racconto.
Ci incontriamo in fondo a via Amadeo, all’imbocco del sottopasso, una delle porte d’ingresso al quartiere Ortica, estrema periferia est di Milano, al di fuori della cerchia interna della città. L’Ortiga, in dialetto milanese, è un territorio dal passato agricolo, del quale resta traccia ormai quasi esclusivamente nel toponimo. Dalla seconda metà dell’Ottocento è la ferrovia che si afferma come elemento primario del quartiere, circondandolo letteralmente. Ancora oggi, per accedervi è necessario oltrepassare questi confini ferrati. Al di là dei binari ci ritroviamo nella piazzetta principale, davanti alla chiesa dei santi Faustino e Giovita e alla Balera. Quest’ultima è stata a lungo un dopolavoro ferroviario con annessa bocciofila, e dopo un periodo di chiusura e abbandono, dal 2012 è stata riaperta dalla famiglia Di Furia, la quale definisce il quartiere “vintage ma al contempo alquanto underground, autenticamente old school”. La Balera costituisce in effetti l’attrazione principale del quartiere e la spazializzazione concreta di un fenomeno ricreativo popolare, per esempio tramite il revival del gioco delle bocce e della mazurka, riattualizzati in forma moderna e a misura di metropoli. La riscoperta di questo luogo, che attrae visitatori da tutta la città, ha permesso di riaccendere i riflettori su Ortica. Nonostante la presenza di avventori storici del Dopolavoro, attualmente sono gruppi di giovani “hipster” e la moda retro ad aver sostanzialmente rimpiazzato i ferrovieri. Al suo fianco si trova la vecchia stazione dei treni di Lambrate, dismessa nel 1931, ora rifunzionalizzata a uso abitativo. In passato la popolazione locale era per l’appunto caratterizzata dalla nutrita presenza di lavoratori delle ferrovie, i quali animavano i principali spazi di socialità e ritrovo della zona.
È qui che incontriamo Gianni (pseudonimo), abitante storico dell’Ortica, dopo essere giunto a Milano da Napoli negli anni Ottanta. Come lui stesso ci racconta la storia di questo quartiere è schiacciata tra le linee ferroviarie che ne delimitano l’area: a sud il passaggio merci, a nord i treni passeggeri. A causa di questa conformazione gli abitanti parlano di un villaggio dentro la città, una sorta di enclave o “terra di confine” dove, oltre alla ferrovia, a poca distanza tra loro si condensano il fiume Lambro, la tangenziale Est e l’aeroporto di Linate, che fanno dell’area uno “svincolo per eccellenza”.
Gianni non è affatto sorpreso dal nostro interesse per il quartiere, sostiene infatti che molte persone vengono qui per “osservare e studiare”. Alcune sono attratte da questa dimensione di piccolo paese rimasto incontaminato dalle spinte trasformative del modello Milano, che grazie a questa sorta di isolamento avrebbe goduto di un’evoluzione peculiare. Vi sono poi gruppi, anche tramite vere e proprie visite guidate, che si recano all’Ortica per vedere i tanti murales a sfondo storico-sociale realizzati dal progetto Ortica Memoria, Or.Me., che gli sono valsi l’appellativo di “quartiere museo”. Nonostante tutto, per Gianni l’Ortica è rimasta abbastanza la stessa nel corso degli anni, ossia poche strade con pochi bar dove ci si conosce tutte e tutti quanti.
Lo salutiamo e proseguiamo lungo via Ortica, arteria principale del quartiere, fino in fondo dove c’è il ponte pedonale. Oltrepassiamo ancora una volta la ferrovia e sbuchiamo tra via Tucidide e via Corelli. Qui si trova, in un’area di quattro ettari, l’ex fabbrica di ceramiche Richard Ginori, dismessa nel 1986. A partire dal 2001, le sorti del luogo hanno seguito un progetto di recupero a uso abitativo e commerciale. Attualmente vi sono circa settecento loft, costruiti nel corso degli anni dentro le vecchie strutture, i quali hanno attirato una variegata popolazione di affittuari composta perlopiù da artisti, designer e grafici.
Musica e arte sono diventate il segno distintivo della rinata Richard Ginori. La crescente presenza di artisti ha determinato la nascita di un centro d’attrazione per una moltitudine affine e conforme, una vera e propria comunità auto-segregata che tende ad autodefinirsi come un “microcosmo creativo”. Al vertice di tutto questo scopriamo esserci Giuseppe Saracino, ex sessantottino milanese datosi poi agli investimenti immobiliari con la sua Sanpietrino Srl. Saracino ha acquistato l’area a inizio 2000 dal gruppo Ligresti, per poi cominciare a trasformare l’ex fabbrica, pur scontrandosi nelle fasi iniziali con il comune di Milano per via della destinazione d’uso industriale e non abitativa, tuttora mai convertita.
Oltrepassiamo di nuovo la ferrovia, allontanandoci in direzione Rubattino. Quando sbuchiamo in via Bistolfi, il paesaggio che si schiude davanti è un susseguirsi di vuoti urbani recintati in procinto di essere riempiti e di costruzioni recenti a vocazione principalmente commerciale e abitativa. Il comune denominatore tra quanto è già pronto all’uso e i cantieri in divenire sembra essere la longa manus di agenzie immobiliari e costruttori, consci dell’impatto che la prossima riqualificazione dello scalo di Lambrate avrà sulle prospettive di profitto dell’area e incentivati dall’azione propulsiva di associazioni e iniziative territoriali.
All’angolo tra via Cima e Bistolfi incrociamo un edificio industriale di sei piani, mai portato a termine, ora in fase di riconversione a uso residenziale e ribattezzato Homizy Rubattino. In quest’ottica di “rigenerazione urbana” si inseriscono anche i due progetti della Borio Mangiarotti presenti in zona. Il primo che incontriamo, ancora in fase di realizzazione, si trova nell’area ex Sammontana sempre in via Bistolfi. Si tratta di due lotti di terreno, sui quali sorgevano alcuni stabilimenti in disuso della ditta dolciaria, per un totale di diciottomila metri quadri, e dove, con i suoi duecentocinquanta appartamenti, vedrà la luce il progetto residenziale Casa Borio. Nelle vicinanze, in via Pitteri, si trova l’altro edificio, quest’ultimo già abitato, dove sono presenti cinquantasei appartamenti. Continuiamo a risalire via Bistolfi lasciandoci alle spalle un murales di Or.Me. raffigurante figure femminili di spicco del Novecento italiano, realizzato sulla facciata di una scuola superiore. Invece, dall’altro lato della strada, in via Trentacoste, notiamo un cantiere con una voragine immensa; non è stato ancora pubblicato nessun progetto, ma dalle poche dichiarazioni rilasciate abbiamo appreso che potrebbe trattarsi di uno studentato privato finanziato da un fondo lussemburghese.
Passiamo oltre la caserma militare e ci imbattiamo in un isolato nuovo di zecca e in parte ancora da spacchettare e completare. Siamo nell’area ex De Nora in via dei Canzi, stavolta il progetto titolato East Garden prevede la costruzione di quattro torri di nove piani ciascuna, per un totale di centosette appartamenti che godrebbero di un parco pubblico di diecimila metri quadrati. Il marketing del mattone qui non perde un colpo, diffondendo rendering sfavillanti e slogan evocativi: spazi in condivisione, sostenibilità ambientale e design district. Suggestivi immaginari che sovrappongono allo storico quartiere una nuova veste, grazie anche all’impulso dell’imminente riqualificazione dell’adiacente scalo di Lambrate. In una stretta e rapida convergenza di intenti, nell’area ex de Nora ha investito anche una cordata di società capitanata dalla Caputo Partnership International, che sta realizzando altre quattro palazzine a uso residenziale a concludere il perimetro del nuovo isolato.
Infine, inoltrandoci tra le vie di Lambrate e in quello che un tempo fu il design district più in voga di Milano, scopriamo che poco resta dei tentativi speculativi portati avanti da Mariano Pichler, architetto e poi investitore immobiliare, nella famosa via Ventura, il baricentro del design “made in Lambrate”. Anche allora la riqualificazione aveva seguito l’asse della dismissione industriale, cercando di attrarre la cosiddetta classe creativa, sempre attraverso finalità di presunta salvaguardia dell’identità storica del quartiere. Subito dopo Expo, però, gli abitanti lamentavano che “non di solo Salone si vive” e rapidamente i cartelli affittasi hanno preso il posto degli hub creativi, migrati alla volta del “nuovo” distretto Nolo. Già all’epoca si auspicava che il fallimento servisse da lezione futura, ma è risaputo che sui flop causati dalle speculazioni immobiliari questa città ha la memoria corta: i vuoti lasciati si tramutano alla svelta in rimossi storici.
Per l’appunto, gli slogan che promuovono i tour turistici all’Ortica puntano tutto sulla presunta capacità del quartiere di restare fedele alla propria tradizione pur non rinunciando a quel processo di modernizzazione positivista tanto caro alle amministrazioni milanesi. Questa commistione tra antico e moderno è utilizzata anche dai progetti che si affollano per “rigenerare” l’area. Sul passaggio dalla funzione agricola a quella industriale, insieme all’attuale trasformazione in quartiere museo e distretto green-alternativo, convergono intenti e discorsi di tutti gli attori economici e politici che stanno investendo nella zona, o che si impegnano a trasformarla, come nel caso del progetto di ricostruzione della memoria storica locale capeggiato da Or.me., realizzato dagli Orticanoodles e sovvenzionato dal Comune. Il passato industriale e operaio viene allora celebrato da tutti i lati nell’ottica di appiccicare un’etichetta esclusiva al quartiere, rendendolo unico e attrattivo, oltre che perfettamente conforme all’immaginario del modello Milano. L’identità storica dell’Ortica non entra in contraddizione con il processo di omologazione all’attuale stile dominante che controlla l’estetica, i costi, i modi abitativi della città e, di conseguenza, i tipi di abitanti che la popolano.
Una determinata identità spaziale e una certa funzione economica si sposano con le rispettive simbologie, e nella nuova versione di Ortica e Lambrate tutto confluisce verso quella che sembra essere la sola politica urbana meneghina: la monocoltura del residenziale a medio-alto reddito. Nella costruzione retorica necessaria alla messa a valore di quest’area, non viene fatto alcun accenno alla presenza di strutture poco attrattive nell’immaginario della coolness: come le diverse case di riposo per anziani o come lo stesso Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli. In effetti, a pochi metri di distanza dal triangolo ferrato dell’Ortica si trova un luogo di reclusione, il Cpr, che dietro a una patina di opacità, vive di processi totalmente altri, carichi di violenza. (giacomo mattiello / barbara russo – continua)
ALTRE PUNTATE
C’era una volta l’Ortica #2 – Archeologia di un centro di detenzione
C’era una volta l’Ortica #3 – “Con l’unione di tutti ce l’abbiamo fatta”