Dal n.7 (novembre 2021) de Lo stato delle città
La storia del CPR di Torino è una saga repressiva lunga ventidue anni e spesso dimenticata. Omertà, abusi, morti, resistenze e rivolte hanno avuto un’accelerazione negli ultimi anni, insieme all’inasprirsi delle leggi sulle migrazioni e all’aumentare della violenza della narrazione mediatica sui corpi delle e dei migranti.
Il CPT (poi CIE, oggi CPR) torinese nasce nel 1999 all’interno di un’area militare situata nel mezzo del quartiere dormitorio Pozzo Strada. È il primo in Italia a essere costruito per effetto della legge Turco-Napolitano (1998). Il centro di detenzione è circondato da palazzi di dieci piani riservati alla classe media, dai balconi si può sbirciare all’interno della struttura e sentire distintamente l’odore acre di materassi e coperte che bruciano durante le rivolte dei reclusi. Le alte mura isolano i reclusi dalla vita del quartiere che scorre tranquilla e delimitata da un blocco di cemento e ferro grande tre isolati. A distanza di un marciapiede si fa jogging o si porta a passeggio il cane in mezzo al viale alberato di Corso Brunelleschi.
L’architettura della struttura è stata normalizzata e blindata negli anni. Alla sua apertura il CPT (Centro di Permanenza Temporanea), gestito dalla Croce Rossa, era composto da container in lamiera con una capienza dichiarata di settanta persone, divise per nazionalità e genere. La struttura, contestata fin dalla sua nascita dalle reti antirazziste cittadine, dopo pochi anni di attività perse il consenso di gran parte degli attori istituzionali, che parevano intenzionati a chiuderla: venne bocciata da alcune commissioni governative (per esempio la commissione Amato), criticata da una buona fetta dell’amministrazione locale e perfino da esponenti internazionali (come l’ambasciatore Onu, Staffan De Mistura).
Mentre in molti parlavano del suo superamento, arrivarono dal governo centrale più di dieci milioni di euro per l’ampliamento e la ristrutturazione totale. Una “riqualificazione” per rendere la struttura “più sicura, più decorosa”, come dichiarato dall’ex prefetto Goffredo Sottile.
A poco più di un mese dall’ennesima inaugurazione viene trovato il corpo senza vita di Fatih, giovane tunisino, abbandonato nonostante la necessità di cure e le numerose richieste di soccorso dei suoi compagni di cella. Come per altri episodi tragici avvenuti nei centri, il caso sarà rapidamente archiviato. Reperire informazioni, carte e testimonianze, nonostante i CIE (Centri di identificazione ed espulsione) rientrino nel sistema di accoglienza statale, è un processo complicato se non impossibile. Intanto, contemporaneamente alle mobilitazioni cittadine e all’accendersi del dibattito pubblico, tutti i testimoni della morte di Fatih vengono rimpatriati in fretta e furia.
Un muro non solo fisico: prefettura ed enti gestori (agli albori la Croce Rossa, in seguito enti privati vincitori di appalto) governano la quotidianità e i fattacci del centro senza rendere conto a nessuno, nella totale opacità su ciò che avviene dentro.
Lo schema utilizzato nella vicenda di Fatih si replicherà a ogni emergenza, anche dal punto di vista repressivo: le persone solidali, che all’esterno del CPR e in varie zone della città rivendicano l’abolizione dei centri, sono le uniche perseguite.
Nel 2014 la gestione viene affidata all’associazione Acuarinto e alla multinazionale Gepsa. Quest’ultima, che dal 2018 gestirà da sola il CPR torinese, è una delle aziende del gruppo Engie (ex Gdf Suez), specializzata in gestione e logistica di carceri e strutture detentive. Attiva in Francia, come altre aziende specula sui corpi delle persone detenute per aumentare i profitti. Ne sono la prova due morti e numerosi atti di autolesionismo; servizi alla persona dimezzati, cibo scadente e imbottito di psicofarmaci, celle affollate e pochi operatori e mediatori, questi ultimi in alcuni casi del tutto assenti, con conseguente gestione interna demandata ai reparti di polizia e della celere.
Pochi anni dopo, nel 2018, il ministro Orlando decide di intenerire l’acronimo delle strutture: CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio). Una risposta chiara e di rottura alle leggi securitarie del precedente governo per i partiti di centro-sinistra, uno schema ridicolo e paradossale per chi non vive nella loro dimensione.
Oggi la capienza massima del sito detentivo è di centottanta “ospiti”, così chiamati perché considerati beneficiari del sistema di accoglienza nazionale, nonostante sia l’ingresso che la permanenza e il rimpatrio siano misure coercitive e non scelte dal singolo.
Dodici “ospiti” potrebbero potenzialmente passare parte della loro reclusione in una delle stanze dell’area chiamata Ospedaletto: dodici celle di cemento avvolte da una “gabbia metallica che rende la struttura un enorme pollaio”, come l’ha definita l’Asgi (Associazione studi giuridici sulle migrazioni) ne Il Libro nero del CPR di Torino, e al cui interno vi sono un tavolo, una sedia e una branda fissate al pavimento. La normativa prevede che vi possano essere recluse persone che ne fanno direttamente richiesta e/o che necessitino di uno spazio a loro dedicato in caso di problemi di salute. Un’area di isolamento sanitario che, nonostante quanto emerso negli anni, non dovrebbe assumere un ruolo punitivo e men che meno di abbandono.
A tenere alta l’attenzione su quanto accade all’interno dell’Ospedaletto e del CPR, è stato il lavoro svolto da attivisti e attiviste antirazziste, avvocati e associazioni sensibili. Le contraddizioni e i paradossi del centro torinese possono essere raccontati attraverso l’analisi di tre date emblematiche, legate tra loro da un filo conduttore e in un contesto che non si è mai realmente modificato, nonostante alcune leggi ed effimere ondate di sdegno pubblico.
NOTTE TRA IL 7 E L’8 LUGLIO 2019
Nella notte tra il 7 e l’8 luglio 2019 Faisal Hossein muore all’interno di una delle celle destinate all’isolamento sanitario nell’area Ospedaletto. Faisal era in isolamento sanitario da ventidue giorni a causa dei suoi problemi psichici. Tale condizione avrebbe dovuto semplicemente impedire la sua detenzione. Il giorno prima di morire Faisal stava male e, secondo quanto raccontato da un vicino di cella, avrebbe chiesto più volte aiuto. Una richiesta sempre più disperata con il passare delle ore, sempre più fievole con l’arrivare della notte, fino al silenzio.
Faisal è morto solo, il pulsante per chiedere soccorso, che dovrebbe essere presente in strutture destinate alla degenza sanitaria, era staccato. Anche le telecamere a circuito chiuso erano spente “per un malfunzionamento”. Il caso è stato archiviato e sono stati rimpatriati o trasferiti i pochi testimoni. Faisal Hossein è morto di arresto cardiaco, dicono le carte.
Circa un mese dopo la morte di Faisal, il recluso Deniz Resit Pinaroglu dichiara l’inizio dello sciopero della fame tramite una lettera pubblica consegnata agli avvocati. Deniz è un dissidente turco, giornalista e attivista politico di sinistra che si oppone al regime di Erdogan. Dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016, la rappresaglia verso i giornalisti comporta per Deniz l’ennesima accusa. Per sfuggire a una nuova prigionia, decide di lasciare il paese con mezzi di fortuna. Giunto a Piacenza viene fermato per un controllo e, nonostante sia provvisto della richiesta di asilo politico, viene trasferito al CPR di Torino. Dopo una lunga battaglia portata avanti con lo sciopero della fame, e parallelamente da avvocati e attivisti, anche a livello internazionale, Deniz riesce a uscire dal CPR ed evitare il rimpatrio che lo avrebbe condotto alla galera e alle torture del governo di Erdogan. Epilogo rarissimo.
Durante la detenzione, come altri prima e dopo di lui, Deniz è riuscito a far uscire dal centro per il rimpatrio decine di foto e video che ritraevano proteste, tentati suicidi, atti di autolesionismo, mostrando così le pessime condizioni igienico-sanitarie della struttura. Una pratica che la prefettura di Torino decide di ostacolare, dapprima rendendo inutilizzabili le fotocamere dei detenuti al loro ingresso nel centro e, in seguito, negandone l’accesso. Tale misura ha colpito doppiamente i detenuti. Da un lato il telefono era l’unico modo per poter rimanere in contatto con i familiari e dall’altra evitava di dover continuamente compilare la “domandina” indirizzata a operatori e forze dell’ordine per parlare con gli avvocati.
I telefoni sono stati individuati anche come il mezzo attraverso cui, da fuori le mura, i militanti antirazzisti avrebbero diretto le periodiche rivolte: una narrazione che relega i reclusi al ruolo di marionette per gli scopi di gruppi politici estranei alla condizione dei detenuti.
I cellulari personali sono stati sostituiti con cabine telefoniche a pagamento, spesso mal funzionanti e soprattutto non abilitate a ricevere chiamate in entrata. La possibilità di effettuare chiamate internazionali verso parenti e amici, utilizzando applicazioni online, si è tramutata nella consegna di tessere telefoniche da cinque euro, credito assolutamente insufficiente per garantire ai detenuti il diritto alla comunicazione con l’esterno.
La scelta della prefettura ha avuto come ovvia conseguenza l’isolamento dei reclusi, la recisione di molti legami di solidarietà esistenti con l’esterno, e allo stesso tempo ha reso complicato, se non impossibile, crearne di nuovi.
Dopo la morte di Faisal Hossein e le polemiche scaturitene, l’ordine dei medici di Torino ha intavolato una trattativa a porte chiuse con prefettura e Gepsa per affiancare con medici volontari i dottori assunti da Gepsa, con l’obiettivo di migliorare il servizio sanitario all’interno del CPR. I risultati della trattativa, così come l’esistenza della stessa, sono diventati di dominio pubblico solo nel marzo 2021.
Il presidente dell’Ordine, il professor Giustetto, tutt’ora in carica, ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Pressenza.com il 12 marzo scorso: “L’idea è stata quella di garantire che un certo numero di colleghi svolgessero volontariamente un’attività all’interno del CPR sui fronti verso cui è necessario intervenire”. Tra le altre cose, aggiungeva, “ci prefiggiamo di affiancare i medici della Gepsa durante il loro turno, in modo tale che si possano svolgere alcune attività in doppio, un’attività importante è proprio dare un aiuto a compilare in maniera approfondita le cartelle all’arrivo”.
Queste cartelle prevedono la valutazione dell’idoneità della persona alla “vita in collettività” (ovvero al trattenimento all’interno del CPR). Un compito che in realtà dovrebbe essere svolto dall’Asl. In mancanza, dicono i medici, “ci rendiamo disponibili”.
Gli esiti reali della trattativa restano avvolti da un velo di mistero e omertà. Dopo la trattativa, infatti, viene rimosso l’ex responsabile medico di Gepsa, il dottor Pittanti, sostituito dal dottor Donegani, noto per la sua esperienza di medico in zone di guerra e sponsorizzato da una parte dell’associazionismo, in particolare la Ong Raimbow For Africa. A Donegani vengono affiancati due medici volontari specializzandi. Ma le dichiarazioni dense di buone intenzioni dell’Ordine si scontrano con la realtà, ovvero l’assunzione dei tre medici, Donegani e i due specializzandi, da parte di Gepsa. Episodio che rende evidente l’ipocrisia di tutta l’operazione di “trasparenza sanitaria”, i cui risultati saranno di lì a poco tristemente tangibili.
Stando alle testimonianze dei reclusi, voci che con grande difficoltà sono riuscite a superare quelle mura, anche sotto la gestione dei “medici volontari” continua l’assenza di cure mediche. I reclusi denunciano, attraverso i loro avvocati, il lassismo dei dottori incaricati e l’indifferenza di tutto il personale gestionale e poliziesco nei confronti dei casi sanitari gravi, se non gravissimi. Continuano, in linea con la gestione sanitaria precedente, il rifiuto sistematico di cure e tamponi, le detenzioni autorizzate nonostante arti rotti o problemi psichici evidenti, arrivando anche a operazioni chirurgiche svolte all’interno del CPR anziché nella sala operatoria di un ospedale, proprio come avviene nelle zone di guerra in cui Donegani è abituato a operare. Un modus operandi inaccettabile, ancor più se a promuoverlo è proprio chi sta tristemente tentando di umanizzare il luogo in cui opera.
NOTTE TRA IL 22 E IL 23 MAGGIO 2021
A marzo 2020 scoppia la pandemia e la rabbia esplode nelle carceri di mezza Italia, mentre dal CPR di Torino sembra giungere solo silenzio. La bolla in cui è stato isolato rende difficili le comunicazioni con l’esterno. Quel poco di cui si viene a sapere è dovuto agli avvocati e ad alcuni reclusi che informano di una situazione paradossale all’interno del carcere amministrativo. Ai legali non è quasi mai permesso entrare per i colloqui con gli assistiti, ma allo stesso tempo i detenuti vivono nelle medesime condizioni del periodo pre-Covid: nessun distanziamento fisico, assenza di mascherine, nessuna precauzione e prevenzione, nessuna disponibilità di tamponi e totale mancanza di periodo di quarantena per i nuovi giunti.
Nonostante le incurie sanitarie denunciate dall’interno è stato impossibile consegnare vestiti, coperte e intimo a causa delle rigidissime procedure per la sanificazione degli indumenti, secondo la versione dei responsabili di Gespa e della questura. Una situazione che si scontra con i racconti degli avvocati, rimasti basiti per l’assenza di misure di prevenzione all’interno del centro.
Nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021 viene trovato senza vita all’interno dell’Ospedaletto Moussa Balde, un ragazzo di ventitré anni proveniente dalla Guinea. Le prime dichiarazioni delle forze dell’ordine parlano di suicidio per impiccagione tramite un lenzuolo. Le testimonianze che trapelano faticosamente dalle mura del CPR lasciano, invece, la porta aperta ad altre ipotesi ancora più inquietanti.
Il giovane si trovava a Ventimiglia per varcare il confine italo-francese e il 9 maggio era stato aggredito con calci, pugni e sprangate da tre persone. L’aggressione viene filmata da una signora affacciata al balcone. In poco tempo gli aggressori vengono identificati e fermati. La motivazione fornita dai tre è un tentato furto di cellulare commesso da Moussa, il quale però si è sempre dichiarato innocente.
Il ragazzo viene ricoverato in ospedale a Imperia per le gravi lesioni subite. Viene dimesso sbrigativamente e portato in questura dove gli viene notificato un decreto di espulsione perché è privo di permesso di soggiorno. Dalla questura di Imperia passa immediatamente dentro il CPR di Torino, in attesa di essere deportato in Guinea.
Quando Moussa arriva a Torino i segni dell’aggressione sono ancora evidenti. L’avvocato Gianluca Vitale, nei due incontri tenuti il 13 e il 14 maggio, lo trova confuso, sconcertato per la detenzione ed emotivamente scosso. La valutazione dell’idoneità alla detenzione, per chi gestisce il CPR di Torino, non è altro che un pro-forma. Questa “idoneità” viene concessa alla quasi totalità delle persone che arrivano nel CPR, senza una reale valutazione del loro stato fisico e psicologico.
Moussa, dopo alcuni giorni di reclusione nell’area Rossa, viene messo in isolamento sanitario nell’Ospedaletto, dove si toglierà la vita. Nei giorni successivi alcuni reclusi cominciano uno sciopero della fame per ricordare il loro compagno e per denunciare le condizioni di reclusione inumane in cui sono costretti. Ciononostante, da anni si dipinge il CPR di Torino come l’eccellenza tra i centri di permanenza per il rimpatrio in Italia.
8 SETTEMBRE 2021
Come da prassi, a seguito di un evento così sconcertante, fa il suo ingresso nella struttura il Garante dei detenuti e delle persone private della libertà. Lo stesso che ad aprile 2020 contestò il proseguimento della detenzione alla luce della chiusura delle frontiere e dell’assenza di vettori per il rimpatrio. In tale occasione visionò il centro e nel report del 2021 dedica una parte specifica al CPR torinese, soffermando la propria attenzione sull’Ospedaletto.
Le numerose polemiche e ondate di indignazione di una parte dell’opinione pubblica alle notizie di cronaca nera provenienti dal centro hanno spinto il Dipartimento per le libertà civili, un ente ministeriale, a ordinare la chiusura della cosiddetta “gabbia”. La stampa nazionale, spesso cauta a definire le pratiche all’interno dell’Ospedaletto come “inumane e degradanti”, titola sulla chiusura usando toni trionfali, fidandosi ancora delle voci degli ambienti polizieschi e dimenticando di leggere i documenti ufficiali. Questi, infatti, tracciano una storia differente: da una parte si evince come le istituzioni giochino a darsi la colpa o a nascondersi dietro la giurisprudenza per giustificarsi, dall’altra la cruda realtà dei fatti, ovvero “il famigerato Ospedaletto” sarà chiuso solo temporaneamente per poter effettuare i lavori di ristrutturazione. La pubblica amministrazione si è già attivata al fine di destinare le risorse economiche (che di solito non si trovano così celermente) per proseguire i lavori e poter riaprire quanto prima la gabbia.
La storia dell’Ospedaletto mostra ancora una volta come in tema di CPR a prevalere sia sempre la linea “riformista”, una dinamica tappabuchi utile a quietare sul breve termine il dibattito pubblico. Tuttavia, il CPR resta un luogo “invisibile”, sia sensorialmente che metaforicamente. Non si sa che cosa succeda al suo interno, le informazioni non arrivano e ciò rende problematico denunciare le condizioni in cui vivono i detenuti, creare dissenso, creare solidarietà. Ciononostante, le persone recluse resistono, anche quando l’obiettivo è la mera sopravvivenza.
La storia di questi luoghi disumani, destinati a persone che hanno commesso il solo “reato” di esistere, deve continuare a essere raccontata e diffusa, non solo in campagna elettorale o alla prossima notizia di cronaca nera, ma sempre. Fino a quando queste prigioni non esisteranno più. (sportello il-legale csoa gabrio / lca manituana)