Credo che di tanto in tanto sia importante crogiolarsi nello stereotipo. Forse addirittura necessario. D’altronde ho sempre pensato di non dovermi sentire in colpa se nella mia città posso mangiare una pizza e bere un caffè almeno decenti dovunque, se quando c’è il sole la gente sorride di più, se certe canzoni le conoscono pure in Norvegia. Certo, mi rendo conto che su alcune cose mi mancano le basi: non ho uno zainetto, e del Super Santos nemmeno l’ombra; ho lasciato a casa gli avanzi del pranzo di ieri; nel treno sono l’unico ad essere solo, e ad attendermi ho appena due amici, il primo alla stazione di Castellammare, il secondo a Sant’Agnello. Basi o no, in ogni caso, questa Pasquetta a Sorrento non me la toglierà nessuno. Così verso le 10.30 avanzo a grandi falcate verso Porta Nolana, dove mi imbatto in Majid, vecchio amico tunisino.
Majid è un po’ spossato, e capisco come mai quando mi racconta dei bagordi della sera precedente. La bottiglia di rhum ancora in mano mi conferma che deve essere stata una lunga notte per lui, e quando scherzando gli chiedo dove ha dormito mi sorride sornione, da vero tombeur de femmes. Il capolinea della Circumvesuviana, però, e il treno su cui salgo, sono ben lontani da come li ricordavo. Molto più vuoti, e molto meno rumorosi, mi deludono per il loro essere quasi anonimi, in un giorno così importante. Il treno, in realtà, si riempie alla fermata successiva, quella di piazza Garibaldi, rafforzando la mia autostima per aver camminato un po’ di più a piedi, ma aver fregato tutti sul tempo guadagnando l’agognato posto a sedere. Mancano però quasi del tutto le folle di ragazzini che si accalcano, spintonano, sfottono e rumoreggiano, nell’attesa dell’arrivo a Meta o Piano di Sorrento. È proprio mentre provo a immaginarli portati altrove da chissà quale nuovo contagio, che vengo destato dai discorsi di quattro signore slave over sessanta, che storpiano i nomi delle fermate e ridono tra di loro, cominciando a godersi un giorno di vacanza di certo assai più meritato del mio.
È quasi mezzogiorno, e il sole picchia sul finestrino innalzando la qualità della vita in maniera incontrollabile, nonostante la maggior parte dei passeggeri siano stipati in pochi centimetri quadrati. Sembra quasi giugno, e mi sbilancio pensando che forse questo lungo e piovoso inverno ha davvero le ore contate. Arrivato a destinazione la mia impressione da viaggiatore ormai occasionale è confermata: sono lontani i tempi dell’adolescenza in cui giovani armati di occhiali da sole e pastiera corteggiavano le turiste straniere, sperando di strappargli un bacio nella Villa comunale di Sorrento. Oggi è tutto più sobrio, più pacato, e nonostante la folla, manca quel qualcosa in più che ha sempre reso la Pasquetta un giorno speciale. La Villa è addirittura chiusa.
Mentre ci accomodiamo sugli scogli del porticciolo a chiacchierare birre alla mano, le luci e i colori cominciano a mutare lentamente, e una minacciosa nuvolaglia fa timida capolino. La birra a stomaco vuoto, si sa, mette appetito e quindi si riprende il treno verso Meta. Un controllore appollaiato su una ringhiera alla stazione di arrivo ci ricorda improvvisamente che è vietato prendere treni senza aver fatto prima il regolare titolo di viaggio, e così rimandiamo la discesa a Seiano, puntando dritti verso l’Aequa Bar, locale di riferimento in loco. Anche lì, però, qualcosa va storto. Le entrate sono tutte sprangate o chiuse con grossi lucchetti, fatto salvo per una porticina praticamente sospesa sull’acqua, là dove comincia il piccolo molo in muratura. Scavalcando reti da pesca, boe e ostacoli di ogni tipo ci addentriamo nel bar, ma dopo essere stati guardati malissimo da una manciata di commensali ci accorgiamo di essere ospiti non graditi di una festa privata, e ci allontaniamo di malumore, ripiegando altrove per il pranzo.
La casa di P. a Sant’Agnello, Sorrento, è in lizza con altri cinquantuno siti Unesco per diventare “patrimonio dell’umanità”. I burocrati che si occupano di queste cose stanno in particolare concentrandosi sul grosso agrumeto dove arance e limoni ricordano agli ospiti di essere in un piccolo angolo di paradiso, di cui la pioggia esalta adesso gli odori. Già, piove, la nuvolaglia ha fatto il suo regolare corso, e rifugiarsi sotto un tetto amico è parsa la soluzione più logica. Così, l’estate, gli scogli e le birre di appena un paio d’ore fa sembrano un ricordo lontanissimo, e l’atmosfera sembra più quella di un accogliente casolare umbro, pronto a riparare ogni avventore bisognoso dalla tempesta. Tanto più che risulta particolarmente difficile abituarsi all’idea che quella casa, teatro di una mai sopita tardoadolescenza fatta di feste, grigliate e eventi di ogni genere, sia abitata da distinti ed educati signori quali i parenti di P., dimostrando che persino in quelle mura la civiltà può avere la meglio sulla barbarie.
La pioggia non si arresta, e così la Circumvesuviana diventa la tappa obbligata. In uno dei vagoni finalmente ritrovo un gruppo di ragazzi moderatamente scostumati, forse semplicemente vivi, che si gettano acqua addosso, ballano sulle note di musica latino-americana fuoriuscente dagli Iphone, provano a coinvolgere gli altri passeggeri nel loro gioioso caos. La maggior parte di loro, però, come ogni viaggio di ritorno che si rispetti è un po’ immalinconito: pensano probabilmente che anche questa è fatta, e magari alla sveglia di domani mattina, alla scuola, o semplicemente ai fatti propri. Io sono ancora bagnato fradicio, e mi guardo intorno provando a passare il tempo osservando i viaggiatori. Mi accorgo di non essere a mio agio.
A Torre Annunziata salgono le dame dell’est di cui mi ero invaghito durante il viaggio d’andata. Non riesco a spiegarmi come mai, probabilmente per scherzare, adesso parlano francese, con ottima pronuncia tra l’altro, tanto che fatico a stargli dietro. Riesco a cogliere una serie di improperi contro la polizia, un panegirico sull’abitabilità di Forcella, fino a che quell’accento un po’ slavo un po’ transalpino, finisce per tramortirmi, inspiegabilmente depresso.
Arrivo a Napoli alle 21 circa. Diluvia, fa freddo, e piazza Garibaldi è un deserto pieno d’acqua. Continuerà a piovere fino al mio arrivo a casa, come ha fatto ininterrottamente per gli ultimi quattro mesi. Mi incammino mestamente sotto i colpi del generale Inverno, che a questo punto, è lecito pensarlo, non smetterà più di avanzare. (pazzaglia)
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