Per chi l’aveva conosciuto in anni lontani di militanza in centri sociali e poi ne aveva perso le tracce, pur sapendo che lavorava in fabbrica da qualche parte nel centro-nord, la ricomparsa di Giovanni Iozzoli come autore del bellissimoI terremotati, edito dalla Manifesto libri nel 2009, fu una piacevole sorpresa. Il libro narrava gli effetti del terremoto dell’80 in Irpinia attraverso lo sguardo incantato di un adolescente di paese. Una scrittura senza fronzoli, ben piantata in un contesto sociale e in un periodo storico definiti, capace di dare sostanza a una folla di personaggi ognuno a suo modo sofferenti, ma sempre credibili e spesso commoventi. Ce n’era da far impallidire le tante narrazioni levigate e insipide che i nostri corregionali producono da qualche anno in maniera sovrabbondante, sempre a distanza di sicurezza dai nodi cruciali della società e della storia, se non attraverso la mediazione di qualche schemino di genere. Non è un caso che Iozzoli non sia diventato nel frattempo uno dei tanti scriventi alla moda e abbia pubblicato il suo secondo romanzo con una piccola casa editrice di Modena, Artestampa. Il libro è uscito nella primavera scorsa e si chiama I buttasangue.
Lo scenario è cambiato, non è più quello luminoso e frastagliato d’Irpinia, e lo si capisce fin dalle prime righe: il cielo è basso, grigio, l’orizzonte piatto, l’aria appestata dalle esalazioni delle fabbriche. Siamo in un paese della bassa padana, nella provincia laboriosa e accogliente che ha assorbito, anche in anni recenti, numerose ondate di “emigrazione interna” dal meridione. Ma sono anche gli anni della crisi e da qualche tempo sono sempre di più, anche a queste latitudini, le persone che si ritrovano a camminare sul filo “come fachiri”, per usare una definizione di Iozzoli.
La voce narrante è quella del protagonista, come nel romanzo precedente; ma anche se il ragazzino dei Terremotati finisce per lasciare la terra dove è nato per andarsene a lavorare al nord, questo Antonio, metalmeccanico triste e incasinato, non gli assomiglia poi troppo, e non solo perché Iozzoli lo fa pugliese, originario di Cerignola. Anche il ritmo del racconto è diverso. Stavolta tutto è più concentrato, la vicenda si snoda in una manciata di giorni, le azioni e i pensieri del protagonista ne sono saldamente al centro, mentre numerosi comprimari vi ruotano intorno, abilmente coinvolti dall’autore nel vortice di paranoia e paura che sembra travolgere il protagonista; ogni cosa è filtrata dalla sua percezione, sempre più alterata con l’incedere della trama.
Antonio è venuto su da Cerignola con l’idea esplicita di lavorare in fabbrica. Quando è arrivato erano ancora “gli anni buoni”, quelli pre-crisi: il lavoro ti veniva incontro dietro ogni cancello e potevi permetterti il lusso di passare i mesi estivi all’aria aperta, impiegato nella raccolta della frutta, prima di infilarti nel chiuso di un capannone; contratti veri, soldi buoni, magari in gran parte a nero, ma che davano l’illusione di respirare aria nuova, anche sotto quel cielo basso e puzzolente, lontano dallo struscio infinito tra le due piazze del paese, dalla terra dei pomodori del nonno, dal camion stipato di cassette del padre, dall’abbraccio asfissiante della famiglia. Poi però il tempo è passato e intorno si è fatto avanti il deserto: una relazione sentimentale chiusa per noia e forse per la vigliaccheria di non voler andare fino in fondo; la fabbrica di medie dimensioni che ritorna piccola piccola, con i colleghi decimati da prepensionamenti e cassa integrazione; l’esperienza sindacale e politica mai davvero cominciata per paura di dispiacere al padrone; la vita sociale progressivamente azzerata, compressa nello spazio di uno squallido monolocale.
Un giorno nella fabbrica di Antonio un muletto si ribalta, l’operaio che lo guida rimane schiacciato dentro e muore. Come responsabile della sicurezza, Antonio è l’unico, insieme al padrone, ad avere le prove che quell’incidente poteva essere evitato. Ma non ha la forza per dirlo a nessuno. Il padrone lo stringe forte tra le braccia, lo guarda dritto negli occhi, gli dice che conta su di lui. E gli regala una settimana di ferie. L’episodio che mette in moto la storia accade però qualche ora dopo. È l’incontro con la figlia sedicenne del collega morto. Un appuntamento al buio, in tutti i sensi: casuale, equivoco, furtivo, nell’auto in cui Antonio ha cominciato a girare ossessivamente per venire a capo dei suoi dubbi. A interrompere bruscamente l’incontro è un vigile urbano. Antonio passa la notte in guardina. Rischia di essere incriminato per quell’incontro con una minorenne. Ha bisogno che la ragazza testimoni a suo favore e che lo liberi davanti al pubblico ministero (donna) da ogni responsabilità. Ma il giorno dopo la ragazza è sparita, nessuno sa dove sia. Il tono da commedia grottesca vira di colpo in avventura on the road. Nella ricerca affannosa della ragazza, Antonio rimbalza come una pallina da flipper tra preti esorcisti, circoli di presunti satanisti, operatori di una casa famiglia, mentre viene inseguito da personaggi che improvvisamente pretendono qualcosa da lui: l’ex moglie dell’operaio morto, che briga per ottenere il 20% della sua eredità; un questurino pervertito, un ambiguo assessore alla sicurezza, oltre a una folla di gente in bilico come lui: la vedova dell’operaio; suo padre, il nonno della ragazzina, che lo aspetta sotto casa per riempirlo di botte; il giovane operaio di Casoria che da un giorno all’altro è diventato delegato sindacale e questa improvvisa acquisizione di coscienza gli ha spalancato davanti un mondo impensato e terribile; Michelone, l’attivista che setaccia le fabbriche della zona per vendere agli operai il bollettino redatto in proprio, ottenendo in cambio indifferenza e derisione, o al massimo un po’ di pietà. Così lo scenario cambia ancora, la tensione sale, a tratti sembra di essere in un noir alla Carlotto, forse per il cinismo di certi personaggi, anche se qui ci sono più sfumature, un contesto che rende tutto più disperato e credibile.
Ogni tanto l’azione si arresta e un breve capitolo ci invita ad alzare lo sguardo, restituendoci in una manciata di pagine alcune istantanee della storia italiana recente, i modi opposti in cui sono cresciuti il nord e il sud, i loro rapporti fondati sull’utilità e il pregiudizio. Sono le pagine che conferiscono spessore al racconto, perché il narratore ci ricorda di avere sempre ben presente davanti a sé la cornice storica e sociale in cui si svolge la sua vicenda; sono ritratti di gruppo svelti e precisi, che vanno dritti al cuore, senza giri di parole e ottimismi fuori luogo: la breve storia della Teknobroc, la fabbrica in cui lavora Antonio, dalla imprevedibile ascesa del patriarca all’inizio degli anni Settanta, fino alle gesta dei suoi quattro figli ottusi e litigiosi; la vita degli operai dentro la fabbrica suddetta, fondata su un equilibrio al ribasso fatto di abitudine, timore dei superiori e piccole invidie; e la vita fuori, quella delle famiglie formate sul posto dai meridionali, “ossessionati dall’idea di competere con gli autoctoni, terrorizzati dal vederci appaiati ai marocchini, ai senegalesi, ai pakistani; abbiamo capito che il lavoro onesto non rende più, ma non sappiamo fare altro che lavorare, e ci rodiamo il fegato per gli sfottò dei fratelli e cugini rimasti al Sud, più furbi e rilassati”.
E forse proprio per questo alla fine Antonio ritornerà sui suoi passi. Con una mossa imprevedibile, riuscirà a tirarsi fuori dal casino in cui sembrava invischiato in modo definitivo. Certo, le circostanze gli daranno una mano. Ma da qualche parte dentro di sé aveva già trovato la forza per provare a smettere di camminare sul filo. All’improvviso si rende conto che rischiare qualcosa potrebbe essere più divertente, e forse anche più redditizio. Torna al paese, si mette a fare piccoli commerci semilegali con il cugino, acchiappa le occasioni che si presentano, e soprattutto si risparmia la botta del terremoto, che nel 2012 colpisce la provincia emiliana già provata dalla crisi. Come un destino al quale non si sfugge, il terremoto ritorna nelle storie di Iozzoli. Stavolta il protagonista lo scansa per un pelo, e può osservare – nei suoi fuggevoli ritorni in Emilia – con sguardo più leggero e un po’ cinico il panorama delle tendopoli, i capannoni piegati su se stessi, la rovina delle vite altrui. L’importante è starne fuori, salvarsi da soli, sembra concludere un Antonio sollevato da ogni residua paura. Se gli altri non ce la fanno, pazienza. La cosa migliore è “farsi i cazzi propri”, come d’altronde gli hanno sempre insegnato fin da quando era piccolo. Iozzoli costruisce intorno al suo protagonista un ritratto di classe operaia meridionale immigrata senza più un briciolo di illusioni su un cambiamento collettivo, un’umanità che riesce a emanciparsi dalla schiavitù della catena di montaggio solo attraverso l’espediente canagliesco, la prontezza di riflessi, la ferocia nei rapporti umani. Benvenuti al sud. Benvenuti in Italia. (luca rossomando)
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