È notizia di ieri, a praticamente sei mesi esatti dal fatto, la comunicazione di chiusura delle indagini preliminari da parte del pm Manuela Persico e del procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso sulla morte di Davide Bifolco, ucciso da un proiettile sparato da un carabiniere in servizio, la notte del 5 settembre scorso. A questo punto del racconto, da oggi, non si potrà più aggiungere, come è stato fatto finora, “per non essersi fermato a un posto di blocco”: nella comunicazione, infatti, il giudice non fa cenno ad alcun divieto forzato dal motorino su cui Davide si trovava con altri due amici, ma parla genericamente di inseguimento, nato evidentemente dopo il passaggio del mezzo lungo viale Traiano (successivamente, una volta nato l’inseguimento, i tre non si sarebbero fermati essendo il motorino privo di assicurazione). Si tratta di un “particolare” certo non di poco conto, emerso già nel corso dei mesi, a cui però i giornali che hanno raccontato e raccontano questa storia si ostinano a non dare alcun peso.
Il secondo dato è la prima comunicazione pubblica del nome del carabiniere che ha ucciso Davide: si tratta di Giovanni Macchiarolo, trentatrenne, appuntato in servizio al nucleo radiomobile di Napoli. l’accusa nei confronti di Macchiarolo è quella di omicidio colposo, causato da una condotta definita “imprudente” e “negligente” dal magistrato, in particolar modo in considerazione del seguente operato: violazione dell’obbligo di sicura padronanza e adeguata capacità di impiego delle armi in dotazione; mancato inserimento della sicura alla pistola di ordinanza; mancato controllo del posizionamento, del maneggio e della direzione dell’arma. Tradotto in italiano, l’appuntato Macchiarolo esce dalla macchina, dopo l’inseguimento, e dopo che questa ha “tamponato” (parole del pubblico ministero) il motorino, brandendo l’arma in maniera superficiale e soprattutto senza sicura. Allo stesso tempo, tuttavia, il genere di accusa mossa al carabiniere esclude la possibilità che questi abbia puntato l’arma in direzione del ragazzo – l’uccisione sarebbe probabilmente stata considerata, in tal caso, un omicidio volontario – stabilendo che il colpo è partito per errore, seppur dovuto quest’ultimo a una condotta negligente da parte dell’agente.
Una volta preso atto di queste questioni, ce ne sono comunque altre che rimangono nell’ombra. Qualcuna, verrà – si spera – messa in chiaro nel corso del processo, a cominciare da quelle riguardanti la misteriosa sparizione del bossolo dalla scena del delitto, il mancato tracciato delle sagomature sulla stessa, e l’irruzione (documentata da un video) di uno dei due carabinieri, arma alla mano (a questo punto è lecito pensare che fosse senza sicura) in una sala giochi a pochi metri dall’omicidio. Altre circostanze, da considerare quantomeno singolari (come il fatto che le indagini siano state affidate allo stesso corpo dello stato di cui fa parte l’imputato) rimarranno invece parte di una storia che ha rappresentato una delle pagine più nere per la nostra città negli ultimi anni. Una storia sulla quale fin dal primo momento sono sorte strumentalizzazioni di ogni sorta, provenienti da ogni direzione, e per la quale si annuncia un processo che, stando alle premesse, rischia di rivelarsi davvero poco esauriente rispetto al desiderio di giustizia che la famiglia legittimamente esprime fin dal primo giorno dopo l’accaduto. L’unica cosa certa che rimane, oggi come oggi, è la morte di un ragazzino sedicenne, sparato da un uomo in divisa che aveva più del doppio dei suoi anni. (riccardo rosa)
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