Si è parlato tanto negli ultimi giorni del Rione Traiano, uno di quei buchi neri della città capaci di meritarsi gli onori della cronaca solo quando qualche sindaco o assessore – di solito sotto elezioni – propone estemporanee soluzioni o progetti per il rilancio di questa o quella periferia, oppure in occasione di retate, blitz, arresti, omicidi, ferimenti. È accaduto che la notte di martedì 31 gennaio le forze dell’ordine effettuassero nel rione una imponente operazione di polizia, mettendo in esecuzione novantasei ordinanze di custodia cautelare, di cui settantanove in carcere e diciassette ai domiciliari. Un’operazione importante, che va a colpire i protagonisti del traffico e dello spaccio al dettaglio di droga nel quartiere, in particolar modo una serie di nuclei familiari che operavano a differenti livelli per conto del clan Puccinelli.
L’occasione è stata ghiottissima, dal punto di vista della stampa locale, per riportare sulle prime pagine dei quotidiani il caso riguardante la morte di Davide Bifolco, adolescente incensurato e disarmato, ammazzato dal carabiniere Gianni Macchiarolo la notte del 5 settembre 2014 al termine di un inseguimento.
“Bifolco, la morte strumentalizzata dal clan” (Cronache di Napoli); “Bifolco, il clan volle la foto della salma – La pubblicazione su Facebook per creare il caos” (Il Roma); “Bifolco, il diktat del boss, le foto choc su Facebook” (Il Mattino), sono solo alcuni dei titoli comparsi in questi giorni. Ancora: “Petrone tentò di rendere possibile la diffusione della foto della salma per alimentare i rancori del Rione nei confronti dei carabinieri”; e: “Scopo del ras, sospettano gli investigatori, quello di alimentare il rancore dell’intero Rione nei confronti dell’Arma, colpevole, secondo Petrone, di fare troppa pressione sulle piazze di spaccio gestite da lui e dal suo gruppo” (Cronache di Napoli).
La questione sollevata dai quotidiani cittadini, in sostanza è: Francesco Petrone, identificato come reggente del clan, sarebbe intervenuto con il personale dell’obitorio per agevolare lo scatto della fotografia del corpo di Davide Bifolco; avrebbe fatto pressioni sui media perché la foto ottenesse il maggior risalto possibile; avrebbe agito allo scopo di fomentare una reazione violenta da parte del quartiere nei confronti di polizia e carabinieri. L’ordinanza di custodia cautelare, però, e le intercettazioni dell’inchiesta, dicono altro: “Nell’ordinanza a cui avrebbero attinto gli autori degli articoli che intendiamo censurare – spiega l’avvocato Rinforzi, che per conto della famiglia Bifolco ha presentato una diffida alle redazioni dei quotidiani di cui sopra – non si parla di alcuna strumentalizzazione. Ben altre, d’altronde, sono le ragioni che hanno mosso la partecipazione della gente e il coinvolgimento della stampa, convogliati in manifestazioni civili e legittime, a cui hanno partecipato persino i rappresentanti delle istituzioni”. Fatta eccezione per le tensioni nelle prime due o tre ore dopo l’omicidio di Davide, in effetti, le reazioni da parte degli abitanti del quartiere e dei partecipanti ai tanti cortei che vi ebbero luogo non furono mai violente, anche grazie alle continue richieste formulate in tal senso dai coniugi Bifolco.
L’associazione tra una telefonata con cui Petrone chiede informazioni sul personale in servizio all’obitorio, insomma, e il teorema secondo cui la camorra avrebbe caldeggiato e sfruttato le foto del corpo del giovane per “creare il caos” nel rione (foto diffuse via social network dai familiari, e da lì riprese da Il Mattino, come spiega il 15 settembre 2014 agli inquirenti il vicecapo redattore Maria Felicia Salvia), sembra assolutamente strumentale a relazionare due cose che tra loro non hanno nulla a che vedere: la morte di un ragazzino che viaggiava in motorino con due amici, e il sistema camorristico del Rione Traiano. Un’operazione che la stampa cittadina ha provato a fare fin dal primo momento dopo l’omicidio e sulla quale oggi torna alla carica.
Vale allora la pena ricordare le vere ragioni e il contesto che portarono allo scatto di quella foto. Gli eventi menzionati, infatti, hanno luogo pochissime ore dopo la morte di Davide, quando la confusione rispetto a quello che è successo è totale. La scena del delitto è stata irrimediabilmente inquinata; le testimonianze sulle modalità dello sparo sono contraddittorie; circolano voci incontrollate (rivelatesi poi tutte false) sui precedenti penali di Davide; i carabinieri, e a ruota i giornali, affermano la presenza di un’arma riconducibile ai tre ragazzi in fuga ritrovata a pochi metri di distanza dal luogo dell’omicidio, mentre poi si apprenderà che l’unico ad aver toccato quella pistola è il carabiniere Antonio Sarno; il corpo di Davide viene spostato ripetutamente e viene caricato sull’ambulanza nonostante sia senza vita; non viene tracciata nessuna sagoma sul selciato; è impossibile stabilire con certezza in che modo il ragazzo sia stato colpito dal proiettile e la sua caduta. In considerazione di ciò appare comprensibile il bisogno, da parte dei familiari, di diffondere una fotografia che più che fare chiarezza la chiede, mostrando in maniera inequivocabile e, certo scioccante, il foro del proiettile che attraversa il torace del ragazzo. Un’immagine che, insieme al lavoro dei legali, a quello dei movimenti e comitati di quartiere che hanno provato a tenere alta l’attenzione sulla morte di Davide, e ai pochi racconti autonomi dalle veline della questura che sono stati fatti nei mesi a seguire sul caso, ha contribuito a un andamento non scontato del processo, sul quale si è concentrata un’attenzione fondamentale per il suo esito (una condanna a quattro anni e quattro mesi per il carabiniere Macchiarolo), considerando i precedenti in questo genere di casi.
Resta da chiedersi, a tal proposito, quali siano le vere intenzioni, o quantomeno gli effetti di queste campagne stampa che arrivano periodicamente quando ci sono all’orizzonte tappe importanti dell’iter giudiziario (in questo caso, il processo d’appello). Cercando di ribaltare, come hanno provato a fare fin dal primo giorno dopo la morte di Davide, una realtà che è già abbastanza dura da digerire cosi com’è. (riccardo rosa)