È in libreria dal 2 novembre la seconda edizione di Detti. Viaggio tra i soprannomi del popolo napoletano (Monitor edizioni, 212 pagine, 13 euro), a cura di cyop&kaf.
Sopra una galleria di immagini, sotto l’introduzione dei curatori.
La bambina con la mantella decorata di galassie entra in chiesa mentre fuori uno scirocco aggressivo scaglia granelli negli occhi degli ultimi sprovveduti che ancora non hanno trovato riparo. Giusto il tempo che il vento si ritiri e la pioggia gli subentrerà prepotente.
È bionda, i capelli levitano su spalle minute, la mamma l’insegue con entrambe le mani occupate, spesa e telefonino. È in corso un funerale, per questo il suo sorriso luminoso stride sia con l’aria plumbea dell’interno che con quella da catastrofe imminente dell’esterno. Si dirige a passi decisi verso il candeliere con le lucine a bassa tensione e la scritta che sovrasta la fessura delle offerte. Con audacia ne accende una, poi ancora un’altra, senza obolo di sorta, colpita con ferocia dallo sguardo conformista della madre che corre al riparo infilando monetine a ripetizione. Il clan clang metallico degli spicci – evidentemente cascati in un contenitore bello che vuoto – fa girare le ultime file del funerale. Ma lei va avanti, con la stessa serenità che avrebbe trovato – a detta del prete – il defunto nell’arco dei cieli, distese di pace giusto dietro l’angolo della morte. Suona la luce questa bambina, schiacciando interruttori consumati da decenni di accese e spegnimenti, di preghiere mute o appena sussurrate tra i denti. Suona il silenzio che il prete, in perenne cerca di proseliti, si ostina a negare.
Quando la voce del parroco, senza incertezze di sorta, dichiara che il signore è il dio dell’immenso, la mamma della bambina intende dell’inverso, quasi a conferma del principio di archimede fuor d’acqua che le stava attraversando i pensieri: è nei momenti che precedono il seppellimento che ci si aggrappa con più forza all’idea di una fuga aerea. Eppure non le era sfuggita, tra le centinaia di dipinti apprezzati quel giorno – era il suo viaggio di nozze, in gita al Louvre – anzi, le si era incistata nella memoria quell’iscrizione che recitava solenne: concedete ai vermi la loro pietanza.
È chiaro, queste sono divagazioni. Il baricentro della storia – se ce ne fosse uno – andrebbe collocato nella cassa da morto, laddove il defunto giace in tutta la sua gravità. Uscirà di scena di lì a qualche ora, attraversando la città in un elegante mercedes grigia e metallizzata che la famiglia gli ha rimediato – non senza prestiti e sotterfugi – insieme a un bel loculo piazzato perdipiù non lontano dall’ingresso del cimitero nuovo. Eppure, se risalissimo alle generazioni che lo hanno preceduto, trovarlo qui, in questa bella chiesa barocca, circondato dal profumo moribondo che ogni corona di fiori porta con sé, ci parrebbe addirittura un lusso. Due o tre secoli prima sarebbe finito in qualche anfratto degli Incurabili, bersaglio da becchino, a scolare insieme a decine di altri miserabili come lui, o forse in una fossa comune, tra gli appestati, o, poco dopo, in un cimitero costruito apposta per i colerosi. Certo, le 366 fosse testimoniano in pietra lavica grandi progressi nella gestione della città e dei suoi morti, ma anche dell’anonimato nel quale sono precipitati – alla lettera – decine di migliaia di napoletani poveri. Non sarà il tentativo di risalire la china di un oblio secolare questo mettere nei manifesti funebri, accanto al nome e cognome – sconosciuto ai mille fili del tessuto sociale che lo hanno avvolto nel corso della sua vita – il soprannome che, invece, da sempre lo ha reso visibile agli occhi del mondo?
“A.B. detto ‘O lion, di anni 74” riporta il manifesto funebre giusto fuori la chiesa. Ed è allora che il passante occasionale comincia a chiedersi: sarà stato un uomo coraggioso? O era per la sua capigliatura vaporosa?
Molto più spesso è il lavoro a dar forma alla persona. Da qui i vari ‘A mpagliasegg, ‘O frrar, ‘O cantnier. Ed è inutile ridere degli evidenti errori del necrologista dettato dai parenti. È un popolo che parla a sé stesso, ciò che conta è capirsi. Sarebbe come se si ridesse della pedanteria delle note a piè di pagina degli accademici che scrivono per intendersi tra loro. Gran parte di questi mestieri da qui a breve svaniranno insieme ai defunti che ne portano il nome, di conseguenza anche gli annunci mortuari andranno via via sparendo. Ecco perché ci sembrava opportuno fissarli nel tempo e magari dare lo spunto per una ricerca più approfondita su ciascuna delle vite che si cela dietro questi annunci. Di sicuro ne verrebbe fuori il mosaico di una città ferita eppure tremendamente viva.
Oppure no, questi manifesti non spariranno, perché come si vede negli annunci di certe morti precoci, ai mestieri sono succeduti soprannomi dall’immaginario decisamente più moderno: ‘O flinston, Visparella, Mi scoccio, e soprattutto, come non si sceglie – salvo rari casi – la data della propria morte, non si sceglie nemmeno il proprio soprannome. Per questo motivo siamo fiduciosi che la città negli anni a venire saprà riservarci ancora sorprese, alimentando il mistero di ogni vita che ci sfiora e che, a soffiare sul fuoco della curiosità, infine, potrebbe pure toccarci. (cyop&kaf)