Diario della prima notte di presidio. Ho pedalato tra vie torinesi costeggiando la Dora: la seguo perché sarà lei a indicarmi dove andare questa sera. Dopo una decina di minuti controvento raggiungo il mio obiettivo. Scendo dalla bici quando inizia il canale Molassi e da lontano vedo i primi lenzuoli alle pareti degli edifici: “Il Balôn non si tocca”, “Balôn, la sopravvivenza di tutti noi”. Sono qui per vedere come procede il presidio degli straccivendoli che espongono le loro merci proprio in questo quartiere, ogni sabato. Si sono mobilitati dopo l’ordinanza natalizia che ha decretato lo spostamento del mercato in un’altra zona della città, vicino al cimitero monumentale. Alcuni di loro sono qui dalle tre di questo pomeriggio e ora sono le dieci e mezza di sera.
Mi trascino dietro la bici e inizio a guardarmi intorno in cerca di qualche faccia amica. Riconosco Giulia e la saluto, sapevo l’avrei trovata qui. Gli altri sono tutti attorno a un fuoco che scalda le mani e gli animi in questa lunga nottata. C’è un po’ di musica che filtra dalle casse portate dai ragazzi delle occupazioni vicine. Sono qui per portare sostegno e anche un po’ di tè caldo e vin brulé. Siamo proprio dietro il cortile del Maglio con i suoi negozi e la sua piazza immobile. Ci sono i mercatari, i cittadini solidali, gli attivisti e alcuni studenti. Accanto al presidio c’è un bar da cui si sentono intonare i tormentoni degli anni duemila. Qualcuno mi dice che si sta festeggiando un sessantesimo. Gli sguardi si incrociano, ma dalla festa nessuno osa avvicinarsi.
Mi dicono che il presidio è diviso in due parti: gli altri sono accampati nell’area del parcheggio, dietro San Pietro in Vincoli. Decido di risalire sulla bici e di raggiungerli. Qui trovo un piccolo miscuglio di persone strette attorno al fuoco. Sono tutti seduti, molto vicini l’uno all’altro. Qualcuno sta suonando l’ukulele e altri cantano un po’ stonati. Mi siedo anche io, infilandomi tra i corpi rivolti verso le fiamme. Sedersi è come attraversare una linea. Ora sono anche io lì, con loro.
Gli occhi brillano per il fumo e le scintille. Siamo a pochi passi dal centro, per scaldarci ci affidiamo alle fiamme che silenziosamente illuminano un mondo che molti non vorrebbero vedere. Sono i mercatari con le loro facce e le loro provenienze, con i loro teli e i loro oggetti a sporcare ciò che si vorrebbe, invece, ripulito. Di residenti, qui al presidio, ce ne sono pochi. Molti di loro, insieme ai commercianti e agli antiquari del quartiere, chiedono lo spostamento di questo mercato. Secondo loro la presenza degli straccivendoli e dei loro acquirenti non è decorosa per il quartiere. Ma i mercatari si oppongono alla delibera comunale e questa notte sono qui, nonostante il freddo.
Il fuoco continua a scandire la serata e con il suo movimento fa emergere i profili delle persone. Qualcuno mi offre del tè. Non siamo in tanti in questo presidio e così si instaura subito una strana complicità. C’è un signore rumeno con un cappellino blu e rosso che mi mostra un video musicale sul suo telefonino. Dice che la canzone parla della polenta col formaggio, non so perché, ma credo mi stia mentendo. Il suo amico è più giovane e anche più silenzioso. Vendono insieme gli oggetti recuperati in giro per la città e sono qui per difendere il loro posto fino all’alba, quando inizieranno a mettere la merce sulle lenzuola. Domattina il desiderio è quello di fare comunque il mercato. «Io vicino ai morti non ci voglio stare, così poi siamo morti anche noi», mi aveva detto nel pomeriggio un altro mercataro marocchino.
Nonostante la paura d’impigliarsi nelle maglie della giustizia e della polizia, alcuni degli straccivendoli resistono e ringraziano per la solidarietà che altri cittadini stanno mostrando questa notte. Non deve essere semplice decidere di resistere, ma è necessario. Non c’è alternativa per chi basa la propria sussistenza sugli oggetti raccolti in giro per la città. Il sabato il mercato è pieno di gente e la vendita in qualche modo è assicurata. E quindi si resta qui, tutta la notte del venerdì a presidiare uno spazio che non può e non deve essere “liberato”.
Attorno al fuoco alcuni si domandano se passerà la polizia e se davvero l’indomani sarà possibile esporre la merce. Hanno già steso i teli in attesa dell’alba. I ragazzi di una radio lasciano ai mercatari il numero di telefono per la diretta, così che possano raccontare le ore di attesa e di speranza. Ogni tanto c’è spazio per una risata e la musica riparte con l’esibizione di un bassista che porta con sé un piccolo amplificatore tascabile.
Distanti dal gruppo più numeroso stanno altri due straccivendoli che fumano una sigaretta. Sono quasi sdraiati, avvolti da pesanti coperte con cui cercano di attenuare il freddo di questa notte invernale. I loro racconti sono spezzati dal rincorrersi di due o tre cani che noncuranti dell’orario continuano a giocare. Uno dei cani si avvicina al fuoco, affascinato dal movimento e dal calore. Quasi si brucia la coda e tutti scoppiano in una risata. Il pericolo è scampato.
Le persone incontrate questa notte sono qui, con i loro corpi, a difendere il proprio lavoro. Parlano con la volontà di non essere, ancora una volta, strumentalizzati in quanto poveri, in quanto marginali. Gli striscioni sono chiari in questo senso: “Contro lo spostamento del Balon, barricate!”. Verso le due e mezza di notte decido di tornare casa con l’idea di tornare domani mattina. Gli altri resteranno qui, saldi nell’attesa del momento decisivo. Di certo questa notte c’è stata, è esistita e si è presa il suo spazio tra il cemento del parcheggio e le finestre delle case illuminate.
Diario della terza notte di presidio. Sono di nuovo in sella alla mia bici, sono le due e mi faccio spazio tra i locali notturni di piazza Emanuele Filiberto. Una signora esce con dei cartoni da buttare, rimasugli di una serata di lavoro. Continuo a pedalare tra le vie di questa Torino che è un teatro. Sebbene la sindaca abbia ribadito che lo spostamento di questa parte di Balôn sia irrevocabile, i mercatari testimoniano le loro ragioni, i motivi della loro resistenza, il loro essere ancorati a un luogo che dà lavoro ed è linfa di relazioni sociali. Le istanze sono semplici ma essenziali: vogliamo rimanere e qui resteremo.
Oggi c’è più gente del solito, il presidio è stato unificato e molti universitari sono accorsi a dare sostegno. Il tè bolle, le birre passano di mano in mano e Ghali canta le sue rime dalla cassa. Habibi e Willy Willy hanno risuonato senza sosta durante questa nottata, canzoni intervallate da musica marocchina sapientemente scelta da un ragazzo con le cuffie appese al collo e il telefono sempre in mano. Aldo è avvolto nella sua coperta, seduto di fronte al fuoco con lo sguardo stanco. Gli occhi riflettono preoccupazioni che accomunano molti, ma forse non tutti. Poco dopo lo vedo in piedi, sorridente sempre con la sua coperta addosso che parla entusiasta con una ragazza. Sono tanti i capannelli di persone che si scambiano opinioni e battute, in lingue diverse senza capirsi del tutto. Si prova comunque a comunicare, consapevoli di appartenere a mondi diversi ma inevitabilmente interdipendenti. Domani il mercato si farà. (collettivo opus incertum / mds)
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