I gilet gialli sono una delle cose più incredibili che mi sia mai stato dato di vedere. Siccome spiegarli è difficile, ho selezionato una serie di scritti prodotti dal o ai margini del movimento, così da fornire un controcanto documentato ed efficace alla rappresentazione che i media italiani forniscono di quello che è probabilmente il movimento sociale più interessante degli ultimi anni.
Perché non è giusto che un evento del genere venga strumentalizzato da gente come Di Maio, che è andato a farsi un selfie con Christophe Chalençon, una delle tante figure mediatiche prodotte dal movimento, un destro conclamato che ha anche la virtù di non contare un fico secco, nonostante ami spacciarsi per un pezzo grosso.
I testi che ho scelto provengono in gran parte direttamente dal movimento. A questi si aggiungono degli articoli di stampa e delle analisi scritte da ricercatori o militanti sparsi, in generale appartenenti al mondo dei movimenti sociali di sinistra. Non ho tradotto per intero nessuno di questi testi, limitandomi a farne delle parafrasi o estrapolare citazioni significative perché il lettore possa accedere rapidamente al succo del discorso.
* * *
“A quelli che amano i poveri solo quando sono sulle barricate”
Questo è il resoconto di uno dei primi Actes (così i gilet gialli chiamano i loro sabati di lotta), quello del 30 novembre a Parigi. Sulle barricate regna la confusione, cosi come sulle bacheche Facebook dei gilet gialli.
“Un piccolo gruppo di persone con dei rasta trascina una bandiera indecifrabile. Un altro gruppo si mette in posa davanti all’Arco di trionfo con una bandiera per la democrazia partecipativa. […] Delle granate esplodono più lontano. [Un] tipo, che si definisce ‘nazionalista’, ci fa in qualche frase il giro delle teorie del complotto. […] Sulla vetrina di Louis Vuitton una tag indica la direzione per andare a rendere visita a Rotschild (estrema sinistra o estrema destra?).
“Ci infiliamo nelle vie adiacenti e ci troviamo in una cartolina del 1848. Delle belle barricate a ogni incrocio, dei venditori di merguez e praticamente nessuno sbirro. […] Improvvisamente tutti si mettono a cantare la Marseillaise. Manca solo il piccolo Gavroche con la pistola […], ma cos’è sta merda? […] Un tizio adocchia una donna che sta correndo e le lancia un commento sessista. Due neri dall’andatura militare espongono un guidone dall’aspetto monarchico. […] Abbiamo vissuto un momento di confusione ideologica abbastanza sconcertante. Per noi non sono accettabili dei ‘blacks blocs’[sic] che cantano la Marsigliese. […] La pratica della sommossa o della manifestazione selvaggia non è in nessun caso un segno di condivisione delle idee o di interessi comuni. L’alleanza con l’estrema destra o il nazionalismo, anche se fatta dallo stesso lato della barricata, per noi non è mai giustificata. Secondo noi questa confusione è anche il frutto di un’ossessione per l’insurrezione, che è divenuta come un fine a sé, una ragione di vivere.
“Abbiamo incontrato meno una società di invisibili che non una società assolutamente banale. Molti assomigliano ai nostri vicini, colleghi, amici – a noi, a dire il vero. E tra questi c’è di tutto, gente simpatica, dei coglioni, dei neri, dei bianchi, dei fascisti e degli anarchici. Non comprendiamo dunque il feticismo degli uni e degli altri. Veniamo da classi e quartieri popolari e non vediamo perché delle persone diventerebbero più interessanti e differenti sulle barricate. Non saremo mai tra quelli che vedono i poveri solo quando prendono le armi. Non pensiamo neanche che un’alleanza di classe sia più fattibile sotto i gas lacrimogeni. Allo stesso modo, non comprendiamo perché si dovrebbe avere maggiore indulgenza verso la confusione ideologica degli strati popolari piuttosto che quella che si trova tra i piccolo-borghesi. Non pensiamo che le persone che erano presenti […] avessero tutte gli stessi interessi e lo vedremo probabilmente nelle settimane a venire. Molti abbandoneranno […], altri attendono la prossima manifestazione per sfogarsi con gli sbirri, altri ancora se ne andranno a votare Marine Le Pen. […] Cosi, condividiamo qualche idea: 1 – andare in massa ai blocchi stradali […], 2 – sosteniamo le forme d’organizzazione anti-autoritarie e le assemblee locali […], 3 – non giochiamo ai leninisti/blanquisti infiltrati […], 4 – nessuna tregua allo Stato, all’estrema destra, al razzismo e al sessismo”.
Ancora prima dell’inizio dei giochi, a novembre, il segretario della CGT, Philippe Martinez, stimava impossibile la presenza del sindacato di fianco ai gilet gialli: “Non sfiliamo col Front National”. Col tempo, tuttavia, l’odore sulfureo di fascismo si disperde (il 5 febbraio alla giornata di lotta sindacale voluta dalla CGT ci saranno anche tanti gilet gialli). Al suo posto s’introduce un nuovo aroma, assai maleodorante, cioè il disprezzo di classe verso i gilet gialli.
Il 15 dicembre la giornalista Faustine Vincent firma su Le Monde il ritratto di una coppia di gilet gialli, tali Arnaud e Jessica, che spiegano alla giornalista le loro difficoltà nel mettere assieme i fine mese. Cinque giorni dopo, la stessa giornalista pubblica un altro articolo a suo modo ben più interessante: Perché il quotidiano di una coppia di gilet gialli dà fastidio a una parte dei nostri lettori. La pubblicazione del ritratto di Arnaud e Jessica ha suscitato più di mille commenti sul sito di Le Monde e centinaia d’altri sui social, spiega l’autrice: “La maggioranza schiacciante di questi commenti esprime una grande ostilità […]. Gli si rimprovera tutto: il fatto che abbiano quattro bambini a ventisei anni, che abbiano diritto a 914 euro di assegni familiari, che la madre non lavori – anche se è per evitare delle spese di guardia dei bambini troppo elevate –, i prezzi dei loro abbonamenti telefonici, il fatto che vadano al McDonald’s, che comprino dei vestiti di marca ai loro figli, e persino che abbiano un cane”.
La paura cambia campo, almeno per una giornata. Firma di punta del quotidiano uber-macronista L’Opinion, Irène Inchauspé racconta del terrore dei padroni dopo il “sabato terribile”, cioè la giornata di scontri dell’8 dicembre.
“[I grandi padroni] a un certo punto hanno davvero avuto paura che le loro teste finissero su delle picche. […] Quando c’è stato il famoso sabato terribile, avevano chiamato il capo del Medef [la confindustria francese, nda] dicendogli: ‘Molla su tutto!’ perché si sentivano minacciati fisicamente, i grandi padroni… Mandavano dei messaggi dicendo, molla sul salario minimo…”.
“Il movimento dei gilet gialli non cessa di imbarazzare il potere, i suoi difensori e interpreti mediatici privilegiati”, scrive Samuel Hayat, sociologo, sul suo blog (poi riportato da Lundi Matin). “Portato avanti da persone entrate per scasso nello spazio pubblico, mette l’accento su delle questioni fastidiose. […] Ieri era la questione delle tasse, del giusto prezzo delle cose […]. Oggi è la vecchia questione democratica che ritorna: perché, tutto sommato, bisogna che siano sempre i soliti a decidere, quei professionisti della politica dal linguaggio falso, prestati a giochi oscuri e al disprezzo esibito del popolo? Perché il popolo non può svolgere i suoi affari da solo, almeno per le cose importanti? Rifioriscono allora […] le rivendicazioni di giustizia politica: contro i privilegi di/delle eletti/e, per un controllo rigoroso da parte del popolo, e soprattutto, per il referendum d’iniziativa cittadina”.
Questa domanda di democrazia diretta, nonostante costituisca la principale forza del movimento, poggia sulla convinzione che “il popolo” sia un’entità politica a sé. La pratica dei gilet gialli, in questo senso, “è una democratizzazione del consenso: mette in gioco il popolo contro i governanti, rischiando di dimenticare completamente un’altra figura democratica, quella del popolo contro se stesso. E rischiando di fare il gioco del neoliberismo”, cioè di nascondere i conflitti, appiattirli sotto alla superficie ingannevole dell’idea di “popolo”.
“Per ora – scrive Hayat – il movimento dei gilet gialli, ancorato su posizioni ‘cittadiniste’ (citoyennistes) della politica, non sembra aver imboccato una strada che renda più visibili” i conflitti di genere, i razzismi, gli antagonismi sociali. “Il rinnovamento di una politica emancipatrice dovrà allora pensarsi allo stesso tempo con e contro questo movimento, per la democrazia contro l’oligarchia, ma anche per l’espressione del conflitto contro il consenso, sia esso tecnocratico o cittadino”.
Nuove adesioni
Il movimento nel frattempo si riunisce, a più riprese, tra dicembre e gennaio. Il momento più significativo è senza dubbio l’assemblea delle assemblee di Commercy, un paesino sperduto nell’Est del paese tra Metz e Nancy. Il 26 gennaio un centinaio di delegazioni da tutte le assemblee locali dei gilet gialli si riuniscono per due giorni. A convocare l’evento sono i gilet gialli locali, ben organizzati e da tempo. Nelle settimane precedenti, si era chiesto a ogni delegazione di inviare le loro particolari doléances, con l’obiettivo di stilare una sintesi a minima. L’intera due giorni è trasmessa sui social, e il risultato è quanto segue:
“Noi, gilet gialli delle rotonde e dei parcheggi, delle piazze, delle assemblee e delle manifestazioni […], dal 17 novembre, nel più piccolo villaggio, dal mondo rurale alla grande città, ci siamo sollevati contro questa società profondamente violenta, ingiusta e insopportabile. […] Ci rivoltiamo contro il caro vita, la precarietà e la miseria. Vogliamo, per i nostri cari, le nostre famiglie e i nostri bambini, vivere nella dignità. Ventisei miliardari possiedono tanta ricchezza quanto la metà dell’umanità, è inaccettabile. Condividiamo la ricchezza e non la miseria! […] Esigiamo l’aumento immediato di tutti i salari, dei livelli minimi di prestazione, dei sussidi e delle pensioni, il diritto inalienabile alla casa e alla salute, all’educazione, a servizi pubblici gratuiti e per tutti. […] Coi nostri gilet gialli, riprendiamo la parola, noi che non l’abbiamo mai avuta. E qual è la risposta del governo? La repressione, il disprezzo, la calunnia. Dei morti e migliaia di feriti. […] Niente di tutto questo ci fermerà. Manifestare è un diritto fondamentale. Bisogna mettere fine all’impunità per le forze dell’ordine! Amnistia per tutte le vittime della repressione. […] Dopo averci insultato, ecco che [Macron] ci presenta come una folla fascista e xenofoba. Ma noi siamo il contrario: né razzisti, né omofobi, siamo fieri di stare assieme con le nostre differenze per costruire una società solidale. […] Tra le rivendicazioni e proposte strategiche più dibattute, troviamo: l’eliminazione della miseria in tutte le sue forme, la trasformazione delle istituzioni, la transizione ecologica, […] l’uguaglianza e la presa in carico di tutte e tutti, di qualunque nazionalità ess* siano. Viva il potere al popolo, per il popolo, e dal popolo!”
Il giornalista David Dufresne, assurto alle cronache per la sua denuncia sistematica e social delle violenze della polizia, ha detto che il movimento dei gilet gialli “sta interrogando tutta la società francese, in ogni suo aspetto”. Vale per i politici, per i media, e anche per il mondo dei movimenti sociali.
Il 26 novembre, il Comitato Verità e Giustizia per Adama Traoré, che da anni segna il passo nella lotta dei quartieri popolari contro la violenza e il razzismo dello Stato, aveva invitato tutti a unirsi alle manifestazioni. In un’intervista, Youcef Brakni, membro del comitato, spiega le ragioni di un gesto tutt’altro che prevedibile.
“All’inizio, abbiamo osservato con un certo distacco. Abbiamo visto del razzismo, della negrofobia, dell’islamofobia e dell’omofobia, dei problemi ampiamente mediatizzati. Abbiamo avuto qualche timore, ma ci siamo detti che bisognava guardare il fenomeno da più vicino. E abbiamo visto che è la Francia abbandonata, la Francia periferica, un po’ come quella dei quartieri popolari. E questa Francia si è sollevata innanzitutto per una questione di giustizia sociale, cioè l’uguaglianza davanti alle tasse, […] mentre i grandi gruppi finanziari evitano l’imposizione. […] La questione delle tasse parla anche a noi, che abitiamo i quartieri popolari, in prossimità dei grandi centri urbani. […] In breve, ci ritroviamo in tutte le problematiche portate avanti dai gilet gialli: la questione delle famiglie monoparentali, delle donne isolate che non arrivano a fine mese, la questione dello sfruttamento, di non poter vivere del proprio lavoro. Ci siamo quindi impegnati nel movimento perché ci riguarda, e con l’idea di non lasciare spazio all’estrema destra, portandovi le nostre rivendicazioni specifiche: il razzismo, la persistenza del fatto coloniale, in particolare nella gestione dei quartieri popolari. Per denunciare tutto ciò, non bisogna restare passivi: bisogna costruire alleanze ampie con il movimento sociale e la sinistra. Bisogna dirlo, il nostro appello ha permesso a un sacco di gente di sinistra di trovare il suo posto tra i gilet gialli!”.
C’è in tutto il corso del movimento una continua tensione tra alto e basso, tra orizzontale e verticale. La protesta si è costruita su Facebook, in particolare utilizzando le dirette video – strumenti solo in apparenza orizzontali – e ha prodotto una serie di leader informali. Tra queste instant celebrities spicca, per ora, Eric Drouet, camionista capace di restare sulla cresta dell’onda dall’inizio del movimento.
I leader del momento
Drouet è ormai una delle voci “ufficiali” del movimento, e spesso si assume la responsabilità della piazza, la dichiarazione del percorso e così via. Una tendenza sempre più verticistica e particolarmente visibile lo scorso sabato, alla marcia dei feriti, cioè alla grande marcia parigina contro le violenze della polizia. Scrive in proposito Lundi Matin, in una lettera aperta indirizzata a Eric Drouet:
“I percorsi [dei cortei] depositati in prefettura. Un servizio d’ordine che tenta di farli rispettare e porta tutti quanti nelle trappole della polizia, […] ci si è ridotti a battersi all’interno di una tale prigione a cielo aperto […] La manifestazione di sabato scorso era una specie di caricatura. Il suo percorso un classico delle processioni sindacali: si evitava con cura di passare troppo vicino ai luoghi del potere dove vivono i membri della classe dominante. Come in tutte le sfilate della sinistra dove gli organizzatori temono di perdere il controllo, si mettevano in avanti le vittime in quanto vittime, e si utilizzava la loro presenza per fare appello alla pacificazione dell’insieme del corteo. Una cosa è rendere omaggio ai feriti, un’altra è servirsene come ricatto morale”.
L’emergenza di figure come Drouet è chiaramente in controtendenza rispetto alla richiesta di democrazia diretta e alle pratiche assembleari assunte dai gilet gialli un po’ ovunque nel paese. Spicca in questo senso l’appello lanciato dalla Casa del popolo di Saint-Nazaire, città di cantieri navali, nella quale un gruppo di gilet gialli assai determinati ha occupato uno spazio per farne una base organizzativa. Il loro appello al movimento è un video, ne ho trascritto un pezzo.
“Adesso, bisogna definitivamente radicare il nostro movimento. Bisogna dotarlo di luoghi di vita e di organizzazione duraturi. Dobbiamo costruire delle basi per alimentare il rapporto di forza contro quelli che conducono le nostre vite e il nostro pianeta alla rovina. È per questo che noi, gilet gialli della Casa del popolo di Saint-Nazaire, […] ci appelliamo a tutti i gruppi di gilet gialli affinché si dotino di altrettante case del popolo dappertutto in Francia. […] Le nostre case del popolo sono dei luoghi di vita, di solidarietà, dove il calore del collettivo ci fa sentire che non siamo più soli. Dove impariamo ad ascoltarci e accettare le nostre differenze, e di cui non possiamo più fare a meno. E anche se alcuni di questi luoghi sono minacciati dagli sgomberi, ne troveremo altri. Una casa del popolo non è solamente un edificio: essa si sposta con noi. Nel 1789, il popolo insorto si ritrovava nei club e nei caffé; all’inizio del 20* secolo gli operai rinforzavano la loro solidarietà nelle camere del lavoro; nel 1936 [anno del Fronte Popolare in Francia, nda] e nel ’68 le fabbriche in sciopero il cuore della lotta. Le nostre case del popolo s’iscrivono direttamente in questa continuità. […] Queste occupazioni rappresentano per noi delle requisizioni cittadine perfettamente legittime, alla luce dei mezzi irrisori di cui disponiamo rispetto a quelli dei nostri ricchissimi avversari. […] Bisogna far si che possa continuare ciò che succede un po’ ovunque, ma che minaccia di essere smembrato se non troviamo dello spazio nella durata. Riprendiamo del potere grazie alle case del popolo”.
Il rapporto con i media
Tutto è su Facebook, tutto è in video. Il movimento ha un rapporto con l’immagine in movimento inedito. Nei cortei, migliaia di obiettivi di ogni tipo filmano e diffondono in diretta gli eventi. Si va in manifestazione consapevoli di essere ripresi praticamente in ogni singolo istante. Un grosso problema per chi ha esperienza di scontri di piazza, ma che non sembra tangere i gilet gialli.
Se vi è dunque un rapporto immediato con l’immagine, quello coi media è di tutt’altro tenore. Sin dall’inizio il movimento è stato denigrato e ridimensionato dalle redazioni, che nel panico hanno anche commesso errori grossolani, come cancellare delle scritte anti-Macron da una foto. Per mesi non si è mai parlato delle decine di feriti gravi dalle armi della polizia, le cui immagini nel frattempo inondavano i social.
“Nella crisi dei gilet gialli, i media mainstream e il governo sono sempre stati in ritardo di una battaglia”, scrive André Gunthert, ricercatore in storia visuale all’EHESS. Coi gilet gialli stiamo assistendo a “una grande crisi dell’informazione che non avrebbe potuto verificarsi senza la circolazione degli estratti video” prodotti dai circuiti militanti o da agenzie che operano su internet.
La falsa percezione che il video sui social rappresenti una verità incontestabile, che si possa giudicare l’evento che si guarda come se lo si fosse vissuto in prima persona, sono sempre stati un passo avanti rispetto al rapporto con l’immagine tipico dell’informazione televisiva, mediato da un montaggio e un commento sonoro. I media mainstream e il governo, scrive Gunthert, “di fronte all’alternativa rappresentata dai documenti audiovisivi, prove autosufficienti e senza intermediari, hanno continuato a difendere il privilegio della mediazione, senza vedere che quella non ha più alcun potere se non si appoggia sulla fiducia”. Fiducia che ormai non c’è più, in un “pubblico che ha preso atto del fallimento dei mediatori, e che conta ormai solo su se stesso”.
Da un altro punto di vista, un pubblico che conta solo su se stesso è anche un pubblico che rifiuta di delegare ad altri il proprio destino. In quest’ottica ottimista, vale come chiusura la fiducia nutrita dall’economista Fréderic Lordon, per cui i gilet gialli determinano “il ritorno di quella che potremmo chiamare ‘la situazione La Boétie’, quella che il potere cerca in tutti i modi di farci dimenticare, e che d’altronde dimentichiamo costantemente, tanto sembra un incomprensibile mistero: loro sono molto pochi e regnano su di noi che siamo molti. Ma a volte succede che il velo si laceri e che ritorni la crudele realtà aritmetica del potere. […] Noi siamo più numerosi. Di più, noi siamo parecchio più numerosi di loro. […] E c’è ancora un grande margine di crescita. Tutto questo si verificherà presto: liceali, studenti, infermieri, agricoltori, tanti altri”. (a cura di filippo ortona)