La grandezza di Sergio Piro sta nell’aver attraversato cinquant’anni di psichiatria impegnandosi quotidianamente in difesa non tanto e non solo del sofferente psichico, ma del rifiutato, del marginalizzato, di tutte le vittime di una società escludente che bolla come patologiche le conseguenze del disagio sociale e relazionale. Ha partecipato in prima linea alle battaglie per l’abbattimento dei manicomi e ha diretto diversi ospedali psichiatrici riuscendo, tra mille opposizioni dall’alto, a trasformarli in comunità terapeutiche. È stato un feroce nemico dei muri e delle cure psichiatriche concepite come mero rimedio biologico, e di quell’impostazione per cui essendo il problema mentale di origine biologica, questo si può curare attraverso i farmaci, mettendone da parte le cause individuali e sociali. Il comportamento “deviante” e “anormale” viene, secondo questa impostazione, isolato, fotografato, trasformato in diagnosi, strappato ai rapporti relazionali e quindi curato coi neurolettici. L’interazione complessa dei diversi fattori che determinano i comportamenti individuali viene semplificata ai minimi termini per ottenere una risposta immediata di natura chimica. Un’azione “curativa” che lascia intatti i problemi reali che hanno prodotto l’estraniamento della persona, che dovrà tornare a fronteggiare – una volta disintossicatasi e marchiata di uno stigma – le condizioni sociali (contesto familiare, amicale, abitativo o lavorativo che sia) che gli avevano dichiarato guerra. Ecco il mostro contro cui si è battuto Sergio Piro.
La nuova edizione di Esclusione, sofferenza e guerra (Sensibili alle foglie, 2023) contiene un importante contributo di Dario Stefano Dell’Aquila in cui si ricostruisce la biografia di Piro, ragionata e documentata da preziose citazioni dello psichiatra napoletano, oltre che la prefazione di Teresa Capacchione, dell’Associazione Sergio Piro.
Il volume, la cui prima pubblicazione risale al 2002, e che è stato ristampato con il sostegno dell’Associazione, è una raccolta di dieci brevi “tesi”, cariche di estremo significato, scritte nel pieno della guerra di aggressione contro il martoriato Afghanistan per opera delle truppe statunitensi. Si respira, in queste tesi, un’adesione tutt’altro che celata da Piro al movimento No Global e alle sue moltitudini. Verso quel movimento Piro aveva nutrito la speranza di un nuovo soggetto capace di creare un fronte duraturo di pace, spazzato via dalla repressione poliziesca, dagli arresti indiscriminati, dalle torture e soprattutto dalla disgregazione ideologica.
Il rapporto intercorso tra le tesi di Sergio Piro e il “popolo di Seattle” viene ricostruito nel volume da Roberta Moscarelli, che spiega come, nella fase storica dei “diritti esportati con le bombe” e delle leggi emergenziali, Piro e la sua associazione napoletana OES (Operativo Esclusione Sofferenza) teorizzavano un preciso rapporto di consequenzialità e di compenetrazione tra guerra ed esclusione sociale: “La guerra, lo sfruttamento dei popoli militarmente deboli, le diseguaglianze economiche, la rapina delle risorse, la negazione del diritto di sopravvivenza, la negazione della cultura e del progresso, il dominio dei ricchi sui poveri e dei forti sui deboli, la distruzione della natura, tutto ciò si collega senza soluzione di continuità con le condizioni di esclusione sociale circoscritta e di violenza diffusa, presenti con evidenza massima e crescente all’interno degli stati imperiali dominanti e delle società del benessere” (tesi 1.4).
Una guerra contro gli esclusi, intesi come fasce di popolazione (le donne, le persone di diversa condizione sociale, di diversa cultura o lingua o aspetto, gli omosessuali, i transessuali, i disoccupati, e così via) ma anche come campioni circoscritti o individuali (i disabili, i malati mentali, i tossicodipendenti, i vagabondi), che si accompagna a una “negazione di diritti delle persone perseguitate” (tesi 1.5) e che si rivela come “guerra fra gli esseri umani in ogni forma di odio, di aggressività, di oppressione, di persecuzione, di sadismo macro-sociale, micro-sociale, singolare” (tesi 2.2).
Questa ridefinizione di guerra, appare – a distanza di venti anni dalla prima pubblicazione – ancora nuova e rivoluzionaria, capace di stimolare ulteriori posizioni di antagonismo culturale e dialettico. Il macro e il micro si intersecano e diventano imprescindibili. Non è possibile lottare contro l’esclusione circoscritta della malattia mentale senza legarsi “all’orizzonte vasto dell’impegno politico per la pace, per l’eguaglianza planetaria dei diritti umani, per la giustizia sociale e il pari diritto di accesso alle risorse, per la libertà, per la fine del terrorismo materiale e culturale contro i popoli oppressi e contro le fasce indifese” (tesi 1.6).
Si badi bene, scriveva Piro, a non credere di poter combattere la guerra con un pacifismo generico, clericale o qualunquistico: l’azione di pace è infatti un’azione politica, un teatro di discussione aperto e trasformazionale di vasta portata e di lungo periodo, generazionale (in questo senso si sentono bene gli echi delle lotte anti-manicomiali degli anni Settanta). Dobbiamo intenderci – dicono le tesi – anche su una visione meta-testuale e teorica della guerra. Esiste una teoria diffusa, dominante, secondo cui è innato nell’essere umano l’istinto alla violenza e dunque alla guerra. Se accettassimo questa idea dovremmo ritenere che il razzismo, il nazionalismo, l’etnismo, il fanatismo religioso, il maschilismo, la violenza carnale, la mutilazione sessuale delle donne, la persecuzione dei diversi, l’invenzione di razzialità inesistenti – e perché no “tutte le forme di negazione dei diritti degli altri, di violenza personale, di gelosia, di stupro, di assoggettamento ideologico, comportamentale, religioso e culturale, di oppressione delle donne e degli uomini, che versano in condizioni presunte o reali di difficoltà” (tesi 2.2.3) – altro non siano che espressioni naturali della nostra specie. Rispetto a tutto ciò, il punto di partenza di una nuova narrazione dell’uomo non può che muovere dal dato oggettivo che la teoria innatistica o genetica della guerra non ha basi scientifiche, ma solo il supporto delle classi dominanti che la attuano nelle loro politiche liberticide.
Restando sulla forza di questo legame, le tesi attaccano l’apparato bellico della psichiatria, che si manifesta soprattutto nella manualistica diagnostico-statistica delle malattie mentali e sulla psicofarmacologia totalitaria. Piro è rimasto sempre dentro il mondo della psichiatria, non ha rifiutato l’uso dei farmaci in sé, ma li ha ritenuti un possibile rimedio solo in presenza di una preventiva comprensione del senso di sofferenza, delle relazioni umane e sociali su cui si impiantano l’esclusione e la cosiddetta “malattia”. Senza questo passaggio cognitivo, le “bombe” degli psichiatri appartengono a tutti gli effetti al fronte di guerra contro gli esclusi.
Come rimarca Antonio Esposito nel suo contributo, uno dei fulcri di Esclusione, sofferenza e guerra risiede nella constatazione che i Centri di salute mentale sono sempre più oggi luoghi di distribuzione di neurolettici, luoghi in cui l’individuo non è accolto nel suo complesso e col suo bagaglio di esperienze, ma come organismo biologico da curare, privilegiando la prescrizione di farmaci alla parola e all’ascolto. Un reale movimento contro guerra e sofferenza dovrà necessariamente – dice Piro – rimettere in discussione tutte le istituzioni proliferate dopo la legge 180 del 1978, perché nella prassi, col tempo, queste hanno condotto alla restaurazione dei dispositivi contenitivi manicomiali. Franco Basaglia chiuse il manicomio, ma la psichiatria di guerra l’ha fatto riaccomodare nelle strutture delle Asl. (william frediani)
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