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26 Aprile 2023

Tunisia, deriva autoritaria e caccia al migrante con il sostegno del governo Meloni

Monitor
(disegno di escif)

Da ormai due mesi non passa giorno senza che la premier Meloni e il ministro degli esteri Tajani non citino la Tunisia nei loro discorsi, rivolti sia all’Italia che all’Unione Europea. Si tratta di fatto di bloccare gli sbarchi dei migranti sulle coste italiane in provenienza dalla Tunisia, arrivati in 15.537 nel primo trimestre del 2023, la metà dell’intero 2022.  Ma vi è un dato nuovo che riguarda le partenze dei migranti sub-sahariani dalla coste tunisine che hanno ormai superato quelle dalla Libia.

Qui in Tunisia i governanti italiani hanno trovato un insperato quanto isterico supporto da parte del presidente della Repubblica Kais Saied, che il 21 febbraio scorso, durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, se l’è presa con “le orde di migranti clandestini sub-sahariani che commettono ogni sorta di crimine sul suolo tunisino” e che, a suo dire, ordirebbero un complotto (sin dall’inizio del secolo!) per modificare la composizione demografica del paese, a spese della sua “tunisianité” e appartenenza all’Islam. Inoltre, ordinava la stretta applicazione dell’articolo 39 della legge 2004-6 (finora mai messo seriamente in pratica) che prevede una pena fino a quattro anni di prigione per chiunque dia alloggio o nasconda “clandestini” e li aiuti nella fuga o nella partenza.

Ciò che è accaduto all’indomani di tale discorso è difficilmente immaginabile: dall’oggi al domani centinaia di sub-sahariani si sono trovati in strada e senza lavoro, alla mercé di violenti attacchi da parte di alcuni tunisini, mentre le forze di polizia procedevano a brutali  arresti di massa, anche di studenti africani con permesso di soggiorno. Una parte dei migranti ha chiesto di essere rimpatriata, mentre di fronte alle sedi locali della Organizzazione mondiale delle migrazioni e dell’Alto commissariato per i rifugiati si accampavano a decine, chiedendo di essere dislocati in altro paese, dato che non ritenevano più la Tunisia un paese sicuro. Tra di loro una buona parte di richiedenti asilo umanitario, in un paese che non ha una legislazione adeguata che possa venire in loro soccorso. Ora moltissimi ormai stanno affrettando le loro partenze in mare, sfidando i pericoli legati alla traversata. Mentre alcuni paesi organizzavano voli di rimpatrio, come Guinea e Costa d’Avorio, quel che resta dei movimenti sociali tunisini, sfidando la legge, organizzava una rete di soccorso e di alloggio per i migranti e riusciva a organizzare una manifestazione di circa un migliaio di persone contro il discorso di Kais Saied, definito apertamente fascista e razzista.

Ma perché Saied ha deciso questo intervento muscolare contro i migranti sub-sahariani? Al di là della retorica complottistica, che è una componente essenziale della sua narrazione, il presidente tunisino sembra voler far pressione sull’Europa, in particolare sull’Italia,  per ottenere  più finanziamenti volti a  contrastare le partenze, mentre sul piano interno individua un classico capro espiatorio per distogliere l’attenzione dalla gravissima situazione economica in cui versa il paese. In realtà, i finanziamenti dall’Italia non sono mai mancati, e da tutti i governi.

Ma qual è il contesto tunisino in cui è maturato questo evento?

Nel 2021, mentre il paese sprofonda nella crisi economica più grave della sua storia dall’indipendenza, la transizione democratica si trova in una disastrosa impasse, pur avendo liberato la parola e creato contropoteri istituzionali in grado di bilanciare, almeno teoricamente, eventuali deviazioni  autoritarie da parte dei governi. Dopo un decennio di corruzione generalizzata e incremento dell’economia di rendita che ormai ha preso il controllo della vita politica, i partiti sembrano aver esaurito la capacità di rappresentare le istanze sociali e hanno rinunciato a ogni funzione rappresentativa, svuotando di significato il regime parlamentare. La sede dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo è divenuta un improduttivo teatro di risse continue tra deputati di opposti schieramenti, mentre la popolazione si ritrova impoverita e disillusa. La repressione e la stigmatizzazione dei giovani delle zone povere dell’interno e delle periferie urbane da parte della polizia non è mai cessata e si è accentuata nel periodo della pandemia, causando cicliche esplosioni di collera come quelle del gennaio 2021 che provocarono l’arresto di oltre seicento giovani.

È da questo quadro, a undici anni dalla rivoluzione della dignità, che emerge la figura dell’uomo provvidenziale, il presidente Saied, in un contesto in cui la democrazia istituzionale ha perduto ogni attrattiva per una larga fascia della popolazione tunisina poiché sembra essere stata ”inutile” per la crescita economica e la giustizia sociale, lasciando ai  margini proprio quelli che il giornalista esperto di Tunisia Thierry Brésillon definisce “i perdenti del colonialismo interno”. In particolare, il partito d’ispirazione islamica Ennahdha, presente in tutti i governi succedutisi dal 2011 in poi, cristallizza il risentimento della popolazione.

Eletto al secondo turno delle elezioni presidenziali nel 2019 con il 72,7% dei voti, docente universitario e  costituzionalista rinomato, Saied gode di fama di figura integerrima: è fuori dai partiti, molto popolare tra i giovani che ha incontrato durante la fase rivoluzionaria dei sit-in della Kasbah (febbraio 2011) e con molti dei quali ha intrattenuto un forte legame. Da quando però ha proclamato lo stato d’eccezione, il 25 luglio 2021, il presidente ha concentrato su di sé tutti i poteri e sciolto il parlamento il 30 marzo 2022. Con la nuova Costituzione (votata dal 30,5% degli aventi diritto con il 94,6% per il sì, in un referendum senza quorum ), Saied ha instaurato un sistema iper-presidenzialista e  cercato di  delineare un tipo di democrazia diretta a livello locale, i cui contorni tuttavia non sono chiari. Le elezioni legislative del 17 dicembre 2022, col divieto ai partiti di partecipare, hanno portato alla formazione del nuovo parlamento le cui prerogative sono comunque limitate, dato che le leggi e i decreti presidenziali hanno la priorità rispetto a quelli eventualmente proposti dall’assemblea parlamentare. Inoltre, appare alquanto dubbia la sua legittimità dato che solamente l’11% (un record mondiale!) della base elettorale lo ha votato. Tutto questo in assenza di una Corte Costituzionale e di ogni altro organo istituzionale che possa fungere da contropotere (tutte le autorità di controllo indipendenti, previste dalla Costituzione del 2014, essendo state sciolte dal presidente stesso, a eccezione dell’Isie, l’Instance supérieure indépendante pour les élections.

Dal 25 luglio 2021 del resto il paese è guidato a colpi di decreti presidenziali. Anche la giustizia, definita da Saied “una mera funzione”, sembra essere sotto il suo esclusivo controllo, dopo che, con l’accusa di corruzione, ha revocato cinquantasette giudici nel giugno 2022 e ha continuato a minacciare quanti tra loro non condannassero “i traditori della Patria”, cioè i suoi oppositori. Infatti, tra questi ultimi, sono ormai una ventina quelli in prigione con gravissime accuse basate su prove inconsistenti, ed è di questi giorni la notizia dell’arresto di Rached Ghannouchi, leader del partito di ispirazione islamica Ennahdha ed ex presidente del parlamento disciolto. Poco dopo, il ministro degli interni Fekih, fedelissimo del presidente, ha emanato una circolare in cui ordina la chiusura di tutte le sedi del partito e di quelle del Front de Salut (coalizione di diverse realtà contro Kais Saied) vietando ogni loro attività pubblica. Ennhadha è il responsabile di buona parte sia del degrado economico e sociale dell’ultimo decennio, sia della repressione poliziesca, in particolare nel primo periodo in cui era al potere. Ma basta questo per chiederne conto a livello penale con fascicoli giudiziari privi di prove? E cosa giustifica l’attacco alla coalizione del Front de Salut che ha sempre manifestato pacificamente contro il presidente?

Intanto tutti gli indicatori economici del paese sono al rosso fisso, ma per Saied si tratta di un complotto dei nemici interni ed esterni della Tunisia. Mentre il suo governo negozia lo sblocco di quasi due miliardi di euro di prestito da parte del Fondo monetario internazionale, il presidente in uno dei suoi discorsi più recenti afferma che la Tunisia rifiuta le condizioni poste dall’istituzione di Bretton Woods, che potrebbero portare a sollevamenti popolari. A suo avviso “la Tunisia dispone  di molte risorse per affrontare le attuali sfide economiche” che possono essere ottenute dalla lotta alla corruzione e con il recupero dei beni derubati dal dittatore Ben Alì e dal suo clan. Salvo che i tempi lunghi per il recupero di somme significative con tali mezzi non sono in grado di far uscire il paese dal rischio di fallimento.

L’ex costituzionalista gode ancora del sostegno di circa il sessanta per cento della popolazione secondo sondaggi risalenti allo scorso febbraio. Come scrive il saggista Hatem Nafti “i tunisini cercano di far pagare la fattura a qualcuno. Saied è una specie di vendicatore che promette al popolo la sua rivincita su quello che definisce il decennio nero (2011-2021)”.

Contro tale deriva autoritaria e la caccia ai migranti sub-sahariani non una parola è arrivata da parte dei governanti italiani, che si affrettano invece a dichiarare il proprio sostegno alla “stabilità” politica ed economica della Tunisia in modo che riesca a fermare, nello stesso tempo, “clandestini”, islam politico e “sostituzione etnica”. (patrizia mancini)

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