Uno dei paradossi di questi tempi di crisi è il gran parlare che si fa del connubio tra arte e impresa, tra cultura e profitto, associando sempre più spesso la parola creatività ai termini che oggi identificano un’impresa di successo: l’innovazione, la coesione sociale, lo sviluppo sostenibile. Sono numerose le fondazioni che indicono bandi in cui promettono finanziamenti cospicui a chi si dimostri capace di generare cultura, ma anche occupazione e benessere. I valori universali dell’attività artistica, la qualità delle singole opere, passano inevitabilmente in secondo piano. Nella vulgata corrente la priorità è produrre utili economici. Nuovi tipi di mediatori spuntano fuori dal nulla, figure dai contorni poco definiti, a cavallo tra il mondo dell’arte e quello della pubblicità, della comunicazione, della progettazione sociale. E sono tanti coloro che pensano di dare una svolta alla propria vita mettendo in piedi una qualche impresa culturale. Il Forum delle culture, che si è chiuso a Napoli qualche mese fa con mostre, spettacoli e conferenze di ogni genere e disomogenea qualità, affastellate senza un filo conduttore che le tenesse insieme, ha dimostrato quale può essere il contributo delle amministrazioni pubbliche: quando c’è l’occasione, uno spazio e qualche migliaia di euro spruzzati a pioggia sui tanti aspiranti imprenditori della cultura, non si negano a nessuno. D’altra parte, il fatto che in pochi si siano tirati indietro di fronte a tanta approssimazione e assenza di progetto, la dice lunga sui presupposti etici e sulla chiarezza d’idee alla base di questo tipo di vocazione.
All’ombra di tali aspirazioni, su binari meno rumorosi ma per fortuna ancora solidi e diffusi, la nostra città continua a proporre esperienze artistiche di rilievo, in cui la comunicazione è solo un aspetto accessorio, la mediazione è ridotta all’osso e al centro dell’attenzione resta ben saldo l’artista, insieme con il tentativo di costruire un rapporto più intimo con il contesto in cui l’opera è nata o viene mostrata. Questo avviene spesso in luoghi di confine, inattesi, a volte transitori, dove è bandito il consumo distratto, l’ossessione di accalappiare il turista, la conta dei visitatori presenti all’evento. In questo fine settimana si chiudono due mostre molto diverse tra loro ma egualmente significative nel ricordarci, al di là dei facili entusiasmi sulla creatività, che il rapporto tra opera e artista è nutrito anche dall’insoddisfazione, dal senso di incompiutezza, dalla lotta tra il significato recondito e la percezione esterna, dalla necessità di reinterpretare, di condividere il percorso con gli altri ma senza fare sconti, pretendendo la complicità e un’attitudine non passiva.
In “Erased” – “cancellato” in inglese –, il fotografo napoletano Eduardo Castaldo situa alcuni dei suoi reportage, in particolare quelli dal Medio Oriente, all’interno della casa-studio di Luciano Ferrara, Tribunali 138. Le foto di Castaldo, che hanno già vissuto di vita propria su giornali e riviste di tutto il mondo, rinascono in una dimensione più raccolta, domestica, ma è una rinascita non conciliata, in cui l’allestimento mette l’accento su alcuni significati e ne crea di nuovi attraverso un gioco di rimandi e metafore. I ritratti scattati durante la primavera araba appaiono schermati, oppressi da un velo di spessa plastica; altre foto sono accatastate alla rinfusa sul pavimento o mimetizzate in piccole cornici tra le foto di famiglia di casa Ferrara; quelle tratte da un reportage sui migranti a Castel Volturno spuntano tra le mensole e gli utensili della cucina. Meno conviviale ma egualmente attenta al contesto, “Ascese” è il titolo della personale di Miguel Angel Valdivia, attivo come illustratore per anni a Napoli e oggi di stanza a Londra, che espone la sua interpretazione dello splendido “A Boccaperta” di Carmelo Bene – la storia di Giuseppe Desa da Copertino, il santo che vola – nello spazio che Salvatore Iodice, un falegname dei Quartieri Spagnoli, ha allestito nella cavità sotterranea della sua bottega, un tempo deposito di carbone, dando a questa galleria sui generis il nome di Miniera. Anche qui il visitatore non può limitarsi a scorrere le cornici appese al muro, ma deve calarsi non solo metaforicamente nell’ambiente espositivo. È lo stesso Valdivia ad avvertire che i disegni fanno parte di un’opera che non esiste ancora, perché sono il frutto di un confronto che va avanti da anni con il testo di Bene. Quelle esposte sulle pareti umide della Miniera sono le ultime versioni di un lavoro che stenta a trovare la luce, l’aria aperta, la superficie, e forse soprattutto in questo si definisce. Come siamo lontani dalla celebrazione che in questi stessi giorni, nel palazzo comunale delle arti, viene fatta di un noto disegnatore italiano, che continuando a proporci donnine nude su sfondi esotici vorrebbe che la nostra adolescenza non finisse mai. Per fortuna altrove c’è chi ha il coraggio di confrontarsi con l’età adulta, con i suoi lati oscuri e la sua mancanza di consolazione. (luca rossomando)