Circa cinquecento persone hanno manifestato nel centro di Napoli sabato pomeriggio, per chiedere giustizia riguardo alla morte di Davide Bifolco, il giovaneammazzato lo scorso settembre da un carabiniere di pattuglia al Rione Traiano. Il corteo è partito da piazza del Gesù intorno alle quattro, ha attraversato Montesanto, piazza Carità e piazza Matteotti ed è arrivato – transitando davanti la questura centrale – in piazza del Plebiscito, dove i manifestanti hanno effettuato un presidio all’esterno della prefettura. Accanto alla famiglia Bifolco c’erano i militanti dei collettivi politici e dei comitati cittadini, oltre a gruppetti di studenti di scuole superiori. Nelle prime file, reggendo uno striscione che chiedeva “verità e giustizia” per Davide, gli abitanti del Rione Traiano, soprattutto parenti e amici del ragazzo.
Non sono passati otto mesi dall’assassinio di Davide, ma il tempo in questi casi scorre assai più velocemente di quanto ci si aspetti. La morte di un adolescente per mano di un carabiniere è ormai archiviata dalla città come una “breve” di cronaca. Le dissertazioni antropologiche in cui molti si sono esercitati fin dal giorno dopo il fatto sono un ricordo lontano, e anche il livore di chi ha raccontato questa storia sui giornali e in televisione si è rivelato col tempo direttamente proporzionale all’attualità della notizia, tanto da lasciare spazio – oggi che il “caso” coinvolge meno l’opinione pubblica – ad asettiche e stringate cronache o addirittura (sulle stesse testate che hanno lanciato insinuazioni e accuse su Davide e la sua famiglia) a un ipocrita pietismo. Come se, ora che la notizia tira meno, non valesse nemmeno la pena di riattivare il meccanismo delle illazioni innescato a settembre.
Va detto, tuttavia, che la parabola mediatica di questa storia riflette l’atteggiamento apatico e rassegnato della città. Per più di una settimana, subito dopo l’uccisione di Davide, decine di ragazzini hanno sfilato per le strade del Rione Traiano in preda a una rabbia che qualcuno nel quartiere si sforzava di assopire, chiedendo risposte a interlocutori che avevano difficoltà a identificare. Allo stesso tempo gli attivisti della zona intensificavano il lavoro nel quartiere, mettendo l’accento sull’importanza di tenere una luce sempre accesa sulla morte di Davide, in vista di un processo difficile e per il quale ci sono tanti precedenti poco rassicuranti. Soltanto due settimane fa, più di cinquanta ragazzi del rione partecipavano a un torneo di calcetto organizzato dai promotori della manifestazione di ieri, nel campo della chiesa che ha ospitato la camera ardente e il funerale di Davide, distinguendosi per un atteggiamento esemplare in campo e fuori, e ricordando con cori e striscioni il loro amico scomparso. Tutto questo, però, non ha impedito che a scendere in strada, ora che mancano pochi mesi all’inizio del processo, fossero appena cinquecento napoletani.
Dal quartiere di Davide, che pure in questi mesi ha spesso mostrato solidarietà concreta alla sua famiglia, in pochi hanno deciso di salire in Cumana e venire a manifestare in centro. È su questo, sulla distanza non solo fisica che tiene alla larga gli abitanti delle nostre periferie da una rivendicazione condivisa, che dovrà riflettere chi ha organizzato il corteo. C’è da stupirsi meno che per la gran parte dei napoletani la notizia della morte di Davide sia stata digerita con la stessa velocità di un take-away, con tanto di rimozione rispetto all’eventualità che, in certi quartieri della città, si possa morire senza motivo sparati da un carabiniere, scontando la colpa di vivere una zona “di frontiera”. Un luogo che se è tale, non lo è certo perché su quel lembo di terra nascono tutti delinquenti e spacciatori, ma a causa un isolamento urbanistico e sociale frutto di precise scelte e incapacità politiche.
Intanto il caso passerà a breve dalla fase di indagine a quella di udienza, il che significa che il processo potrebbe iniziare in tempi relativamente brevi. La parte più delicata della prima fase di dibattimento sarà quella relativa all’analisi dei tasselli mancanti che evidenziano il pesante inquinamento della scena del delitto (mancanza del bossolo, assenza della sagomatura sull’asfalto, spostamento dei mezzi incidentati) nonché delle perizie effettuate in questi mesi. La questione più rilevante a tal proposito, riguarderebbe la presenza di una o più fratture sul corpo del ragazzo, successive alla caduta dal motorino al termine dell’inseguimento, che ne avrebbero impedito la fuga, o comunque una fuga improvvisa e frettolosa. Una circostanza che, se confermata, lascerebbe grossi dubbi – considerando la possibilità da parte dell’agente Macchiarolo di raggiungere facilmente e immobilizzare il ragazzo – sulle modalità in cui è stata formulata l’accusa di omicidio, considerato a oggi colposo piuttosto che volontario. (riccardo rosa)
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